lunedì 13 aprile 2020

SOSTIENE PEREIRA: Elogio del distanziamento (a)sociale


Sostiene di chiamarsi Antonio Pereira, di essere un discendente del giornalista del Lisboa protagonista del romanzo di Tabucchi. Sostiene di avermi conosciuto in un giorno d’estate. «Una magnifica giornata d’estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava». Solo che io non sono mai stato a Lisbona, quindi immagino che menta. E’ un uomo di età ormai avanzata, che ha problemi di cuore e la pressione alta. Un ex giornalista di cronaca nera al quale è stata affidata la pagina culturale del giornale. Ora, essendo piuttosto anziano e poco avvezzo all’uso dei social (né gli interessa), Antonio Pereira non ha un blog e mi ha chiesto di ospitare periodicamente le sue riflessioni.

Io credo che quello che viene definito in modo fuorviante ed erroneo come “distanziamento sociale”, e che in realtà è solo un “distanziamento fisico”, sia comunque una gran cosa. Un regalo di questa emergenza sanitaria, alla stregua dei posti di terapia intensiva che in fretta e furia è stato necessario allestire per fronteggiarla, e che spero non vadano perduti in via strutturale.  I cinquemila originari non erano – né potevano esserlo – sufficienti, ma non potevamo saperlo, sebbene a governanti di buon senso potesse sorgere un sospetto ma erano troppo impegnati a occupare politicamente la sanità, specie dalle nostre parti. Realtà che ci ha fatto arrossire di fronte ai ventottomila posti in Germania: nazione che accoglie a braccia aperte dall'Italia medici e infermieri.
Il “distanziamento sociale” sarà quello che verrà, intanto godiamoci questo “distanziamento fisico”: ci risparmia ipocriti saluti tristemente affettuosi nei confronti di chi non sopportiamo e non ci sopporta, ammorbanti vicinanze, fastidiosi abbracci, aliti pesti, compagnie forzate. Auspico che anche in futuro quella che oggi è una imposizione possa diventare consuetudine, ma non nutro grandi speranze.  È l'accezione sociale del concetto di distanziamento quel che più mi interessa. Personalmente sarei per l’apartheid sociale, che però andrebbe valutata, sgomberando il campo da possibili equivoci, secondo i seguenti canoni: gli stolti, gli ignavi, i cretini e gli evasori fiscali da una parte, tutti gli altri in zone protette. Ma come proteggere un gruppo dall’altro? Non si può, quindi l'operazione non potrà avere applicazione... in Italia.

Troverà invece applicazione, eccome, il “distanziamento sociale”. Che altro non è che il tempo entro il quale singoli e categorie recupereranno il tempo perduto, cicatrizzando le ferite finanziarie provocate dal coronavirus. Effetti fatali per artigiani, commercianti, lavoratori autonomi e partite Iva, liberi professionisti, dipendenti di imprese private, anche stracolme di riserve e titoli, i cui manager si sono tuffati nelle opportunità offerte dal "Cura Italia", cassa integrazione straordinaria o in deroga per chiunque ne faccia richiesta.

Va da sé che i primi, sempreché non sprofondino nella semipovertà, avranno di che soffrire per lungo tempo, i secondi si riprenderanno in fretta. Sì, il 2020 farà registrare fatturati al di sotto delle aspettative, ma nessuno andrà in bancarotta perché i paracaduti sono stati aperti, i forzieri stracolmi di valuta e titoli.

L'incognita più preoccupante è rappresentata da quegli “italiani di mezzo” che galleggiavano tra conti da tener d’occhio e benessere: uno spettro di popolazione molto più ampio di quanto le statistiche riescano a censire. Ebbene, costoro ne usciranno indeboliti e al Paese mancherà quella cerniera di collegamento tra classi che consente a chi sta “giù”  di salire e a chi sta “su” di manifestare disponibilità a dare una mano. Pagherà dazio, com’è inevitabile, il Mezzogiorno, il cui vagone stavolta sarà definitivamente sganciato dalla locomotiva settentrionale che si prenderà la fetta maggiore delle risorse e comunque non avrà più né tempo né voglia di tenderci una mano in nome della solidarietà nazionale.
Ecco cos'è a mio avviso il vero “distanziamento sociale”, niente a che vedere con quello fisico dell'ultimo mese e mezzo, che quantomeno relegandoci in casa ci ha evitato di incrociare chi ci sta sui coglioni.
Ma ci consoleremo... tornandoci ad abbracciare, raccontandoci di averla sfangata ma «certo, ora è durissima». Sì, ma sempre per i soliti.
Antonio Pereira

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