lunedì 25 novembre 2013

Poz, Kidd, Rose e Collins: storie di point guard (anzi, di playmaker)

E’ una di quelle parole inglesi che abbiamo trascinato a peso nella lingua italiana senza sapere quale fosse il loro vero significato. Tanto che da loro – intendo in America – “playmaker” è l’atleta in grado di fare le giocate decisive mentre il ruolo che noi definiamo così è quello di “point guard” (guardia, ovvero esterno, che gioca in punta, quindi fronte al canestro avversario).

Tuttavia, non è più tanto raro che la “point guard” sia il “playmaker” della squadra, ovvero che decida le partite; il suo ruolo di spalla, di comprimario così com’era disegnato dal basket tradizionale, nel quale – pur con eccezioni – il play si limita a passare la metà campo palla in mano e innescare con il passaggio i compagni, si è enormemente evoluto e oggi sono davvero tanti i “numeri 1” (altra definizione del ruolo sul parquet) migliori realizzatori delle loro squadre o comunque più votati al tiro o alla penetrazione che non alla distribuzione del gioco.

E anche se questa regola di fatto non esiste (nel calcio abbiamo avuto portieri e centravanti che sono diventati ottimi allenatori), la superiore conoscenza del gioco, il cosiddetto “Q.I. cestistico” e la necessità di osservare e governare tutti i movimenti della squadra specie in attacco fanno del playmaker il candidato ideale a spostarsi, a carriera finita, sulla panchina. Con esiti non sempre scontati, ma a tratti sorprendenti.

Gianmarco Pozzecco
Di quest’ultima categoria è portabandiera Gianmarco Pozzecco, ex giamburrasca del cinque contro cinque (ma anche dell’uno contro cinque…) che alla seconda stagione a Capo d’Orlando sta dimostrando di essere stato tutt’altro che solo un istintivo, un guascone, un individualista con poca attenzione al gioco di squadra e alla difesa. O meglio: alla difesa non ci pensava proprio, ma ora che allena ha trovato proprio in questo fondamentale la sua Nemesi. Dopo aver preso l’Orlandina da 0-6 e averla portata a sfiorare i playoff di Legadue l’anno scorso, in questo campionato il “Poz” è partito male soprattutto a causa degli infortuni (3 sconfitte consecutive), ma da quando ha la squadra quasi al completo è imbattuto, con 6 vittorie in fila almeno metà delle quali ottenute contro pretendenti alla promozione: Verona e ieri Napoli in casa, Barcellona e Torino in trasferta. Risultato: quarto posto in classifica e squadra in piena corsa playoff proprio con la difesa, il gruppo, la voglia di vincere che anima anche campioni come Basile, Soragna, Nicevic che avrebbero tutto per essere ormai appagati. Dopo il successo di Forlì, il “Poz” ha twittato: “Da giocatore pensavo che l’allenatore non contasse nulla… Ora ne ho avuto la conferma!”.

Altro grande play transitato sulla panchina ma con esiti opposti è Jason Kidd, divinità locale del New Jersey (dopo aver portato i Nets a due finali Nba negli anni Duemila) con tanto di maglia ritirata, chiamato dal magnate russo Mikhail Prokhorov a guidare la nuova Brooklyn con tante stelle (Deron Williams, Joe Johnson, gli ultimi arrivi Paul Pierce e Kevin Garnett) e il payroll, ovvero il monte stipendi, più alto della Lega a quota 101 milioni di dollari. Fin qui, però, un flop: 3 vinte e 10 perse, playoff lontanissimi, i “vecchietti” apparsi davvero troppo vecchietti e una qualità di basket addirittura infima. Tanto che la sua avventura al nuovo Barclays Center potrebbe essere vicina al capolinea.

Derrick Rose contro Jason Kidd
Chi invece è ancora sul campo, o meglio ci ha provato ma è stato costretto a fermarsi nuovamente, è Derrick Rose, 25enne stella dei Chicago Bulls che lo hanno preso con la prima chiamata assoluta al Draft del 2008. D-Rose, uscito dall’Università di Memphis con grandi numeri, ha entusiasmato anche nella Nba (Mvp della Lega nel 2011, il più giovane della storia) fino all’infortunio al legamento crociato del ginocchio sinistro che lo ha tenuto fuori per un anno e mezzo. Era rientrato in questa stagione, partendo bene anche se, per il suo stile di gioco tutto basato su velocità, forza fisica e cambi di direzione, le perplessità sul fatto che potesse tornare ai suoi livelli non mancavano; purtroppo, però, si è nuovamente infortunato e oggi sarà operato per una lesione al menisco del ginocchio destro che rischia di fargli chiudere anticipatamente anche questa stagione. Davvero un dramma sportivo per uno dei giocatori più forti dell’ultima generazione, che speriamo non faccia la fine dei vari Penny Hardaway o Tracy McGrady cui il fisico ha negato carriere da All-Star.


Senza alcun dubbio è un “All-Star” del campionato di DNA Gold Andre Collins, playmaker (in
Andre Collins
entrambi i sensi) della Sigma Barcellona. Il record stagionale di assist (ben 18) a condire una fantastica “tripla doppia” con 22 punti e 10 rimbalzi nella vittoria contro Biella, quarta consecutiva per la truppa giallorossa, conferma che “Deuce” è un giocatore di altra categoria, che non ha nulla a vedere con questi palcoscenici. E a Barcellona, dove ancora ricordano giustamente lo straordinario Gerrod Abram della stagione 1999/2000 chiusa a un passo dalla promozione in Serie A, sembrano aver ormai dimenticato i vari Joe Crispin, Mike Green e Taurean Green che hanno occupato la casella nelle ultime stagioni. E sì, perché uno da 20.2 punti, 5.4 rimbalzi, 8.3 assist col 40% da tre è chiaramente l’Mvp del campionato fino a questo punto e il condottiero ideale per centrare, finalmente, la sospirata promozione. Anche se fa 6/20 al tiro, che per numero di tentativi non è proprio una statistica da… “point guard”. Ma da "playmaker", quello sì.

martedì 5 novembre 2013

Questo buffone di sindaco mi sta proprio sul culo


E sì, questo buffone con la maglietta e i sandali che hanno eletto sindaco di Messina mi sta proprio sul culo. Prima di cambiare mestiere e intraprendere la mia attuale occupazione ero un imprenditore edile, e mi ero perfettamente integrato nel sistema degli appalti pubblici: partecipi a una gara, offri il 40 per cento di ribasso, ti aggiudichi i lavori sottocosto e poi ti metti d’accordo con il direttore dei lavori e i politici e a colpi di varianti in corso d’opera ci guadagni ugualmente un pacco di soldi. Bei tempi, erano quelli.

Poi è finita la Prima Repubblica e io aspettavo come la manna dal cielo l’apertura dei cantieri del Ponte: un esproprio, un movimento terra, una colata di cemento e per quindici anni s’incassava, chi se ne frega del “dopo”. Arriva questo Zeus dei poveri, sale sul Pilone sventolando uno striscione con uno slogan del cavolo, “No Ponte” (che poi sarebbe “No al Ponte”, ma l’ignoranza…), e ti monta un gran putiferio fomentando la protesta di tutti i perdigiorno di Messina e dintorni, e così oggi si fa, domani no, dopodomani crolla, fra tre giorni non ci sono i capitali, insomma niente da fare.

        Allora qualche amico mi dice: guarda che il business vero è nella Formazione, un sacco di fondi europei e regionali, controlli praticamente zero, destra e sinistra alleate senza distinzioni quindi nessuno denuncerà mai niente… E invece, anche qui sapete com’è andata a finire.

        Mi sono dato quindi un’ultima chance. Non vi dico qual è, ma lo capirete. Fatto sta che mentre ieri ero lì a piazza Unione Europea e parlavo di affari con un generale amico mio, arriva il mio incubo: maglietta con scritto “Free Tibet” (che poi io con la Cina ho sempre lavorato bene) sotto la fascia tricolore, nemmeno uno straccio di giacca e cravatta, anziché deporre una corona di fiori al monumento ai Caduti come qualunque sindaco che si rispetti tira fuori… la bandiera della Pace? E poi comincia a delirare: Pertini, i granai, gli arsenali, mancavano solo Banderas e il Mulino Bianco. E l’articolo 11 della Costituzione! Ma lo sanno tutti che è scritto con l’inchiostro simpatico!
       
        Insomma, me ne vado sdegnato insieme a un paio di militari di alto grado, pensando che questa piazzata passerà inosservata, come le farneticazioni di un pazzo che non sa proprio come si campa. Oggi invece ti trovo quotidiani, siti e telegiornali pieni di questa buffonata. E passi per Mentana, passi per Repubblica.it e Corriere.it, passi per la prima pagina del Manifesto ché tanto i comunisti sono sempre uguali, ma persino la Gazzetta del Sud! E nemmeno lo squartano come si deve, no! Fanno il canto e il controcanto, “Sono d’accordo” e “Non sono d’accordo”, e se leggi i due editoriali capisci che in realtà sono d’accordo tutti e due, è tutta una combutta catto-comunista che punta a minare i capisaldi dell’economia della nostra città e del nostro Paese.

        No, caro sindaco Accorinti: con quella fascia indosso dovresti rappresentare tutti, non soltanto gli estremisti come te. La mia categoria, per esempio, non la rappresenti affatto. E poi non mi vergogno a dirlo: a me, che di Messina si parli per queste cose, dà parecchio fastidio. Una volta c’erano il “Caso Messina”, poi il “Caso Buzzanca”, insomma storie cazzute, intrecci, politica, malaffare… Questo che sarebbe, il “Caso Barbapapà”?. Ma siamo seri, via.
Pietro Chiocca*

P.S.: al ministro Gianpiero D’Alia, che si è indignato per le parole di Accorinti, vorrei domandare: Lei che è un “politico cattolico”, può chiedere a Papa Francesco cosa ne pensa? Così, per sapere.


(*Pietro Chiocca è il personaggio del mercante d’armi interpretato da Alberto Sordi in “Finchè c’è guerra c’è speranza”)

martedì 29 ottobre 2013

NBA: La guerra di Rose e l'esercito dell'ultima chance

The War of the Rose, ovvero “la guerra di Rose”. E’ il grande ritorno del playmaker di Chicago, prima scelta assoluta del 2008 e fermo da oltre un anno per infortunio, il tema principale della stagione Nba che inizia questa notte con tre partite: il derby di Los Angeles tra Lakers e Clippers, Orlando-Indiana e appunto la sfida tra i Miami Heat di LeBron James, campioni negli ultimi due anni, e i Bulls dell’Mvp del 2011.

D-Rose, oggetto anche di accese polemiche durante gli ultimi playoff per la decisione di non accelerare il rientro, ha già dimostrato di essere nuovamente in piena efficienza fisica con una preseason rutilante a 20.7 punti e 5 assist di media e nella quale Chicago è rimasta imbattuta (7-0); ora deve provare di poter ancora trascinare i Bulls a una riedizione dei fasti dell’era Jordan. Il problema è che gli ostacoli più alti sono tutti a Est e si chiamano ovviamente Miami, Indiana e finalmente Brooklyn; chi uscirà dalla “tonnara” fra queste quattro superpotenze, con ogni probabilità, a giugno si metterà al dito l’anello. Andiamo a vedere un primo ranking diviso tra le due Conference alla vigilia del tip-off di stanotte, con un’appendice dedicata alle previsioni per i premi individuali di fine stagione.

Derrick Rose attacca LeBron James

Eastern  Conference. Davanti a tutti Miami (1): solita struttura, con le tre “stelle” James, Dwyane Wade e Chris Bosh e un cast di contorno sempre più ricco e profondo. Quest’anno c’è anche la doppia “scommessa” sul talento disfunzionale di Michael Beasley e su Greg Oden, centro scelto al n. 1 assoluto da Portland e sin qui messo in croce dagli infortuni. Se riuscissero ad avere anche 20’ da lui, gli Heat diventerebbero imbattibili. Al numero 2 punto su Brooklyn: costruita allo stesso modo di Miami, con un quintetto di superstar anche se “vecchiotto” (a Deron Williams, Joe Johnson e Brook Lopez si sono aggiunti Paul Pierce e Kevin Garnett), ha però una panchina esplosiva con i vari Kirilenko, Terry, Blatche, Evans guidati dall’esordiente Jason Kidd. Per il numero 3, Indiana sopravanza Chicago per la completezza: in una squadra già prima a rimbalzo e seconda in difesa nel 2012/13 rientra a pieno regime Danny Granger, per uno starting five con Hill, George, West e Hibbert fisicamente spaventoso. Quello che non capirò mai è perché Chicago (4) abbia lasciato andare Marco Belinelli, che accanto a un play superstar (Chris Paul, lo stesso Rose) ha sempre reso alla grande; ora deve affidare lo spot di guardia tiratrice a Jimmy Butler ed è l’unica grossa lacuna del quintetto di coach Thibodeau.

Altre candidate ai playoff: tra le squadre che hanno cambiato tanto mi piace Washington (5), che a un John Wall chiamato a far vedere finalmente tutto l’armamentario affianca un Bradley Beal reduce da una grande preseason (13.9 di media lo scorso anno), in ala piccola uno tra Ariza e Webster, sotto le plance Nene e Gortat o magari il sorprendente ceco Ian Vesely. Subito dietro New York (6), ostaggio di una serie di equivoci: Raymond Felton non è un playmaker da primi posti (meglio Udrih), Bargnani da ala forte sembra destinato a perdere in termini di imprevedibilità e c’è sempre il dualismo Carmelo Anthony-Amare Stoudemire da risolvere. La certezza (per modo di dire) è J.R. Smith dalla panca. A insidiare i Knicks metto Detroit (7) non tanto per Gigi Datome che faticherà ma alla fine troverà spazio, ma per una frontline impressionante con Josh Smith e i giovanissimi Monroe e Drummond. Certo, mettere tutto in mano a Brandon Jennings… Ultima moneta contesa tra Milwaukee (8) che, per l’appunto, ha scambiato l’ex romano per Brandon Knight e aggiunto Caron Butler, OJ Mayo e Gary Neal, e Cleveland con la sensazione Kyrie Irving, la prima scelta assoluta Anthony Bennett, il ritorno di coach Mike Brown e l’addizione di Earl Clark dai Lakers. Più indietro tutte le altre, con Boston, Atlanta e Philadelphia che devono ricostruire e le sempre più derelitte Toronto, Orlando e Charlotte.

Kobe Bryant e Kevin Durant, "the Best in the West"
Western Conference. Qui il pronostico è senz’altro più difficile. Perché non ci sono “corazzate”, ma il talento è distribuito in maniera più uniforme. Almeno 10-12 squadre sembrano in grado di centrare i playoff, e ovviamente non è possibile; quindi ad aprile ci saranno diverse deluse. Tutti indicano gli Spurs all’ultima grande chance di anello, e l’addizione di Belinelli accanto a Tony Parker mi sembra strategica, ma la truppa di Popovich è davvero vecchiotta e poi negli anni pari non va mai particolarmente bene (titolo nel ’99, 2003, 2005 e 2007, finale l’anno scorso). Ecco perché la mia favorita sono i Los Angeles Clippers (1), che hanno perso Billups ma possono vantare un quintetto con Paul, Blake Griffin, DeAndre Jordan e due esterni tra Jared Dudley, Matt Barnes, Reggie Bullock, Willie Green e JJ Redick. Senza contare che dalla panchina escono il play Darren Collison e soprattutto il realizzatore Jamal Crawford e che alla guida c’è ora “Doc” Rivers. Dietro sì, dico San Antonio (2) a patto che il gruppo riesca ad assorbire la batosta delle Finali 2013. Altre candidate alle semifinali di Conference sono Oklahoma City (3) e Houston (4). I Rockets hanno preso Dwight Howard ma avevano già Omer Asik, dietro sono super con Jeremy Lin e James Harden ma hanno un “buco” in ala piccola e dovranno cambiare gioco rispetto alla scorsa stagione quando coach Kevin McHale poteva contare sul secondo miglior attacco della Lega. I Thunder non avranno per un po’ Russell Westbrook, infortunato, e il peso dell’attacco sarà per intero su Kevin Durant che però è un fuoriclasse per me anche superiore a James.

Peraltro, Kevin Martin (che aveva sostituito il “Barba” Harden) è finito a Minnesota (5) dove ha residenza il gruppo di maggiore talento in tutta la Nba: Ricky Rubio e Alexey Shved in regia, appunto l’ex Sacramento Kings in guardia, l’ex prima scelta Derrick Williams e Kevin Love in ala, Nikola Pekovic (fresco di estensione a 12 milioni l’anno) sotto. Il tutto con la possibilità, per coach Rick Adelman, di abbassare il quintetto con Corey Brewer da “3” e una panchina lunghissima. Subito dietro vedo Golden State (6), che ha aggiunto Andre Iguodala e può permettersi il lusso di far partire Klay Thompson dalla panchina; Dallas (7) che ha rinforzato il reparto esterni con Calderon, Monta Ellis e Devin Harris e ha in Rick Carlisle forse il miglior allenatore della Nba, e i Los Angeles Lakers (8) che tutti danno per morti o quantomeno moribondi, ma che quando Kobe Bryant tornerà dall’infortunio diventeranno un cliente scomodo anche se l’accoppiata Kaman-Gasol sotto le plance mi pare molto poco “dantoniana”. Anche per i gialloviola è l’ultima chance di titolo, almeno per quanto riguarda la carriera del Mamba.

In alternativa Denver, che non ha più George Karl ma Brian Shaw in panchina e aspetta con ansia il rientro di Danilo Gallinari, o ancora New Orleans che ha cambiato nome (Pelicans) e ha un roster giovane e di talento. La sorpresa in negativo sembra dover essere Memphis, così come Portland alla quale manca sempre un soldo per fare la lira; Sacramento, Utah e Phoenix si attrezzano già per scoutizzare i migliori prospetti in vista dell’attesissimo Draft 2014.

Premi individuali. LeBron James ha vinto già quattro Mvp negli ultimi cinque anni, peraltro quasi nessuno meritato dal momento che è sì fortissimo, ma anche il giocatore più sopravvalutato di sempre (e dài, ecco il veleno in coda!); Kevin Durant è atteso a una stagione di superlavoro, nella quale farà grandi cose ma potrebbe non riuscire a trascinare OKC molto in alto; io quindi dico Chris Paul, il miglior playmaker della Lega nella squadra più spettacolare ma destinata a dimenticare Lob City e diventare redditizia.

Come difensore dell’anno vado anch’io con Dwight Howard, per quanto lo stesso James (secondo nel 2013 dietro Marc Gasol) sembri avere questo come obiettivo della stagione a livello personale; quanto al giocatore più migliorato, le alternative sono Eric Bledsoe che a Phoenix ha finalmente una squadra da guidare dopo aver fatto troppa panchina per il suo esplosivo talento, Bradley Beal di Washington (che però ha già scritto 13 di media) e la mia scelta Anthony Davis destinato a crescere ancora dopo un’ottima stagione da rookie.

A proposito di rookie, per il premio di matricola dell’anno c’è quasi un consensus sul prodotto di Indiana Victor Oladipo (Orlando Magic); a me al college è piaciuto tantissimo il play da Michigan Trey Burke, ora a Utah ma con un dito rotto (uno-due mesi per il rientro).

Il sesto uomo dell’anno – premio che andrebbe intitolato a J.R. Smith e dato a un altro, come nella battuta che circolava ai tempi di Jerry West perenne Executive of the Year – per me non sarà Tyreke Evans di New Orleans o Jarrett Jack approdato a Cleveland (i due favoriti degli addetti ai lavori) ma Andrei Kirilenko a Brooklyn, dove mi sembra destinato a diventare una specie di Manu Ginobili biondo perché è semplicemente troppo forte per essere considerato una riserva.


Infine, l’allenatore dell’anno: facile pronosticare “Doc” Rivers ai Clippers, ma se Dallas va ai playoff in queste condizioni il candidato d’obbligo è Rick Carlisle. Sempre che Minnesota non si trasformi nei Sacramento Kings di Chris Webber e Jason Williams, proiettando Rick Adelman a vincere finalmente il meritatissimo premio.

sabato 26 ottobre 2013

X Factor 7: La creatura del Dr. Morganstein (Non si fa Mika così, Elio!)

E così, il mio preferito è già sul treno per Livorno. Lorenzo Iuracà, ventenne (o poco più) toscano probabilmente di origini calabresi visto il cognome, è il primo eliminato della settima edizione di X Factor, direi ingiustamente visto che era un cantante e un personaggio di un certo interesse e che nella prima manche della puntata inaugurale dello show di Sky aveva anche cantato piuttosto bene, con presenza scenica e personalità oltre che intonazione.
Lorenzo Iuracà, primo eliminato di X Factor

         Le due cose più giuste della serata gliele ha dette Elio, anche se non ho per nulla condiviso la sua scelta di eliminare Lorenzo quando poteva toglierci subito dalle balle i Freeboys, praticamente i Neri per Caso vestiti da One Direction (o viceversa) che invece sono destinati ad ammorbarci ancora per qualche settimana, col rischio che via via le ragazzine s'innamorino e questi tre (abbastanza insulsi) sedicenni ce li ritroviamo dritti in finale. Vedrete, vedrete. Anche perché – ne parleremo – a dispetto dei proclami questa è certamente l'edizione meno brillante, dal punto di vista dei talenti, da quando X Factor è passato con squilli di tromba sul satellite.

         La prima “perla di saggezza” che il sciùr Belisari in arte Storie Tese ha regalato  a Lorenzo è la definizione di “prima vittima degli esperimenti di Morgan”, dal momento che il giudice finto biondo gli aveva assegnato un pezzo di Luigi Tenco. Carino, anche; ma dài, Tenco a primo giro... Allora dillo che il ragazzo lo vuoi morto! Peraltro, i chiodi nella bara Iuracà se li è messi da solo quando per l'ultimo scontro ha scelto come cavallo di battaglia Emozioni di Lucio Battisti, pezzo che – seconda perla di saggezza di Elio – “o lo canti in maniera indimenticabile o ti distrugge”. Eh, la seconda che hai detto.

         Morgan, come saprete, non l'ha presa benissimo e dopo essere stato oggetto di tre quarti d'ora ininterrotti di insulti Elio ha pensato che tutto sommato, anche se lo pagano per rimanere fino a metà “Extra Factor”, il malato di mente poteva pure continuare da solo. “Morgan, ora smettila!” di Matteo Bordone detto Er Moviola l'acme della figuraccia dell'ex Bluvertigo. Peraltro, uno dei pochi argomenti che il povero Elio ha opposto all'ira funesta del suo concittadino trasfigurato in Arisa è stato: “Ma anche Mika ha votato per eliminare Lorenzo, non solo io...”.

         Detto questo, e detto che lo show (nella sua immutabile essenza, sempre uguale a se stesso salvo che nella grandeur, di anno in anno più pronunciata) ha funzionato come al solito al di là dei rutilanti dati di ascolto che non mi interessano, nuntio vobis gaudium maximum: il ritorno della Pompa. Per la gioia di Mika, di mamma Pompa e di papà Pompa (sembra la famiglia di Peppa Pig), la dotatissima Roberta avrà un'altra chance dopo l'inopinata eliminazione alle soglie del programma da parte del suo mentore: ripescata dal pubblico, giovedì affronterà Osso & Mr. Rain (anche loro bravini, specie Osso) per un posto tra i dodici-ormai-undici-che-per-allora-saranno-dieci.

         Ovviamente, dopo che l'avevo già pronosticata vincitrice e che il buon Lorenzo è tornato armi e basette a casina, tifo Pompa. Così vediamo se finalmente possiamo spaccare almeno un altoparlante, visto che quest'anno di Chiare Galiazzo, di Nice o di Nicole Tuzi non se ne vedono nemmeno col cannocchiale.

         Eccolo, il punto: nei giudici, la voglia di stupire ha probabilmente prevalso sull'aspetto tecnico o più in generale artistico, e così si trovano sul palco di X Factor – e per carità, ci piacciono praticamente tutti – più personaggi che cantanti: la Sinead O'Connor de noantri che ha più tatuaggi che capelli e che però ha fatto Seven Nation Army sottraendosi con grande bravura al “po-popopopopo-po” di prammatica (Gaia), la ex concorrente strafiga di Apprentice che ha studiato, sicuro, ma da qui a definirla “quella che canta meglio in questo X Factor” come ha fatto Elio ce ne corre (Aba), il botolo con pizzetto e occhialoni che parla – più che cantare – Max Gazzè con influenze riconoscibili da Buscaglione a... Fantozzi (Fabio), il papà crooner un po' in disarmo che trasforma i Radiohead in Tony Bennett o nel suo clone Michael Bublè (Alan), il ragazzo di paese con poca voce e tanti complessi che fa di Carte da decifrare una ninnananna un po' pesa (a proposito, ignorante d'un Morgan, non è per niente “una canzone poco conosciuta” di Ivano Fossati) e il trio un po' freak formato da due rapper sovrappeso e da un improponibile Easy Rider in ciabatte.

         Solo che questi ultimi, in particolare, hanno la sinistra abitudine di “scatenare l'inferno” ogni qualvolta salgono sul palco, cosa che mi garba anzichenò. Gli Ape Escape assurgono dunque al rango di miei preferiti insieme agli Street Clerks, con quelle facce un po' così da Soliti Idioti (anche loro toscani, del resto) e quelle voci da gente che canta assieme da sei-sette secoli, al Barbabarba del beatbox Andrea e alla ragazza con l'ukulele senza ukulele, la giovanissima Viò, tenutaria del passaggio vocalmente più difficile tra quelli sentiti nella prima puntata. Vedrete che li eliminano tutti, uno dopo l'altro.


P.S.: da quando ho visto la prima puntata delle audizioni continuavo a chiedermi: ma a chi somiglia 'sto Mika? Insomma, chi mi ricorda? Giovedì sera, finalmente, l'illuminazione: per aspetto fisico, parlata, atteggiamenti è preciso 'ntifico Stanlio. Fateci caso.

mercoledì 16 ottobre 2013

Nella vecchia XFactoria (Mika, Mika, Oh)

Un po’ per il nome di questo blog, un po’ per una reale passione nei confronti del programma forse più innovativo e spettacolare della tv italiana, non potevamo esimerci dal commentare la nuova stagione di X Factor su Sky; e in attesa, dopo gli Home Visit, di giudicare i 12 finalisti e magari azzardare qualche pronostico, facciamo il punto sulle prime puntate (audizioni e Bootcamp) e sulle assegnazioni delle categorie ai quattro giudici.

Elio, Mika, Simona Ventura e Morgan a "X Factor"
Ah sì, i giudici: tre conferme e una sostituzione la scelta degli autori e del canale satellitare dopo l’edizione forse più sguaiata, gossippara e trash di sempre. Merito soprattutto di quella sciroccata di Arisa, che dopo essere riuscita a scannarsi sia con Elio sia con la Ventura per difendere i due fratelli incestuosi che nessuno ricorda più nemmeno come si chiamassero e che invece, per la Pantera di Pignola (PZ), avevano praticamente in mano il futuro della musica italiana – ed essere riuscita, verosimilmente a colpi di tetta, a portare dalla propria parte il sempre lucidissimo Morgan – è stata amabilmente mandata a cagare da tutto l’ambaradàn di X Factor, in pratica da Simon Cowell fino all’autista della Skoda.

Al suo posto, dopo due ospitate nella scorsa edizione obiettivamente di grande successo, è stato chiamato Mika, popstar anglo-libanese che ha dimostrato entusiasmo e interesse per la gara ma anche qualità di poliglotta e una simpatia innata. L’ideale, insomma, per dimenticare la pazzoide lucana e (questo un po’ biecamente) proiettare una volta per tutte X Factor Italia nello “star system”, con tanto di fan urlanti e richieste di autografi. “C’è da giurare che vincerà lui”, ci eravamo detti prima ancora di sentire le assegnazioni.

Come volevasi dimostrare. Che sia stato direttamente Simon Cowell, l’inventore del format, a comunicare a Elio, Simona Ventura, Morgan e Mika di quale categoria saranno mentori ha fatto sorridere: in particolare quando ha imposto a Morgan i ragazzi (“under uomini”, secondo la nomenclatura ufficiale) anziché le pulzelle, forse per evitare che ne ingravidasse qualcuna come accaduto due anni fa con la sarda – nel senso di “proveniente dalla Sardegna” ma anche di “secca come una sardina” – Jessica.

E, con un pizzico di cattiveria, viene da pensare che per lo stesso motivo la categoria delle ragazze, peraltro quella sulla carta più forte, sia andata a Mika, i cui atteggiamenti da “macho” avevano pure fatto breccia nel cuore di Chiara Galiazzo che aveva confessato una “cotterella” per lui (sempre lucidissima e molto presente a se stessa Chiara, niente da dire…). Nell’ordine delle cose l’assegnazione degli sfigatissimi gruppi alla Ventura e degli “over 25” al povero Elio che, avesse potuto, avrebbe decorato la faccia di Simon Cowell come Shpalman, l’eroe con cazzuola di una canzone delle Storie Tese.

Solo che, una volta evitato il rischio che Morgan si riproduca ulteriormente – anche se, a rigore, quando si è ingroppato la “Loredana Bertè dei poveri” quest’ultima era nella squadra della Ventura – a Sky devono essersi chiesti: sì, bravissimi, e ora cosa ci inventiamo per far parlare del programma? A parte la musica, sempreché funzioni. Ed ecco la genialata: negli Home Visit, i quattro giudici saranno accompagnati da un amico-socio-consigliere preferibilmente con qualche competenza nel ramo.

E così Elio si porta a Cremona “Mr. Radio Deejay” Linus, la Ventura è a Torino con Boosta dei Subsonica che onestamente non so chi sia, Mika si trasferisce a Dublino con Marco Mengoni (che invidia, non per Mengoni ma per Dublino) e Morgan, udite udite, finisce a Berlino con… Asia Argento (che invidia, sia per Berlino che per l’Asia), vale a dire il “feticcio” della sua vita, la madre di sua figlia e più in generale quella che lo ha fatto definitivamente strippare riducendolo al confuso filosofo da Tangenziale che inizia un discorso, si perde quasi subito e poi, nel momento in cui per miracolo riesce a riportare il concetto nell’ambito del senso compiuto, se la ride più incredulo che soddisfatto. Chissà cosa ne pensa Jessica, se stanno ancora insieme (e no, non vogliamo saperlo).

Ad ogni modo, dagli Home Visit verrà fuori il campo di partecipanti probabilmente meno forte di questa “seconda vita” di X Factor, che su Sky ha trovato nuova linfa, inventiva e libertà di espressione ma anche mezzi illimitati che in Rai non avrebbe certo potuto mantenere. 
L’impressione è che – a parte la generale sensazione di autismo che promana da soggetti tipo la tizia con l’ukulele o quello con i dreadlocks che sembra sempre “fatto” di fresco – sia rimasto in gara qualche “cane”, anzi più d’uno; e l’eterogeneità dei personaggi, dal padre di famiglia in crisi di mezza età stile Tate Stevens (che, per chi non lo sapesse, è il cowboy in disarmo ma con una voce da far tremare il culo che ha vinto l’ultima edizione negli Usa) alla figa che dopo aver partecipato a “The Apprentice” si è convinta che se non è in televisione forse non è realmente viva, appare più funzionale al discorso televisivo che a quello artistico.

Daltra parte, non si può negare che X Factor 7 rischi ormai di essere un po troppo uguale a se stesso, intrappolato in una formula sì di successo ma anche un filino abusata. Così come, alla terza partecipazione come conduttore, il bravo Alessandro Cattelan (che per due anni lha sfangata a priori perché era impossibile essere più scarsi di Francesco Facchinetti) comincia a mostrare la corda di un repertorio di frasi, sorrisi e abbracci un po’ trito. Servirà decisamente qualche novità, o gli ottimi dati d’ascolto delle prime puntate sono destinati a non essere replicati troppo a lungo.


Infine, un primo pronostico: vincerà Roberta Pompa. Per la gioia – come ha snocciolato, scompisciandosi, Mika quando la poverina si è presentata – di mamma Pompa e papà Pompa. Perché “io non sono italiano, ma conosco la pompa”. Ma va’?

martedì 8 ottobre 2013

Tutti i trucchi e gli espedienti del "Poz" (Gazzetta del Sud, 8/10/2013)

Una cosa è certa: anche quest'anno, a guardare le partite dell'Orlandina non ci si annoierà di certo. Sembra averlo subito capito Sportitalia, che dopo lo "show" paladino a Brescia potrebbe (e farebbe bene) decidere di trasmettere ogni settimana l'impegno della squadra di Gianmarco Pozzecco... 

È proprio il "Poz" il personaggio che cambia le carte in tavola, che stravolge consuetudini e piani partita per portare il match dove vuole lui, in una zona in cui non contano più la tecnica o la tattica ma il cuore, la grinta, il gruppo, l'amore per questo gioco. Tanto che i commentatori hanno notato come la squadra sembri letteralmente giocare per lui. 

L'ex play della Nazionale mette al servizio della propria panchina tutta una serie di "trucchi" ed espedienti a metà tra il consumato teatrante (in senso buono, per carità) e il "cervellone" applicato al basket. Sport del quale - torniamo ad affermarlo - ha conoscenza, istinti e letture praticamente enciclopedici. 


Gianmarco Pozzecco "soccorre" Laquintana colpito da una testata al naso
Dan Peterson, che per Sportitalia commenta la LNP, avrà sorriso di gusto quando Gianmarco ha messo in pratica un principio teorizzato proprio dall'uomo da Evanston: il "fallo tecnico strategico", che un coach si fa fischiare intenzionalmente per mandare un messaggio ai suoi o agli arbitri o agli avversari o al pianeta. 

"Poz" ha portato questa tecnica alla perfezione nell'episodio della testata di Bushati a Laquintana nel terzo quarto della gara di Brescia: prima la (finta) lite con Bushati, quindi le reiterate proteste con gli arbitri, infine il time-out svolto lontano dalla panchina, con i compagni raccolti intorno al dolorante Laquintana in una specie di huddle da NFL. 

Risultato? Dal -6 e palla in mano a Brescia al +1 Orlandina di fine terzo quarto. In una parola, ineguagliabile.
(pubblicato dalla "Gazzetta del Sud")

martedì 1 ottobre 2013

Ritratto del sindaco di Hiroshima

«Io sono il sindaco di Hiroshima». Era agosto quando, durante un incontro serale con gli abitanti e i villeggianti di Marmora e Rodia (già questa una piccola rivoluzione), Renato Accorinti metteva in chiaro quale “eredità” amministrativa gli fosse toccata.

Eletto da poco più di un mese dopo una clamorosa rimonta al ballottaggio che aveva coronato una campagna elettorale straordinaria come mai se ne erano viste a Messina (e questo mi sembra oggettivo, al di là della simpatia che ho per il nuovo sindaco e per il suo movimento), Renato aveva già capito l’antifona: gli toccava – e gli tocca – amministrare una città devastata dalla bomba atomica del malgoverno, della burocrazia che soffoca, del disinteresse di un’intera classe politica per la quale era stata solo terra di conquista e di saccheggi. E questo va al di là delle responsabilità personali di chi l’ha amministrata – che pure ci sono – per coinvolgere un intero sistema, quello della politica come l’hanno intesa la prima, la seconda e questa che dovrebbe essere la terza Repubblica.

Una città in cui persino la Vara, la processione della Patrona, era in mano alla criminalità; una città ostaggio delle ditte che gestiscono le discariche perché mai veramente indirizzata verso la raccolta differenziata; una città solcata da migliaia di Tir al giorno mandati in pieno centro da una prassi “allegra” nella concessione dei pass o dalla decisione di un qualunque dipendente dei Franza che per evitare di sovraccaricare il serpentone di Tremestieri si faceva padrone del nostro destino. E potremmo citare altri cento, mille esempi; ma ci risparmiamo questa botta di tristezza.

Al di là del messaggio e del programma in sé, in campagna elettorale Renato ha solleticato in particolare due sentimenti che il messinese aveva quasi dimenticato di poter provare: la fiducia e la speranza. La fiducia che quella persona, una volta sindaco, avrebbe pensato solo ed esclusivamente al bene della città e la speranza che, con questo spirito, qualcosa potesse realmente e finalmente cambiare. Entrambi sentimenti – secondo me – ben riposti; ma che già dopo un paio di mesi appaiono diluiti e in parte disinnescati da un altro sentimento così tipico del messinese da costituirne quasi un marchio di fabbrica: il vittimismo.

Ammettiamolo: noi non amiamo veramente la nostra città. Ci sta bene che sia paralizzata, vessata e mortificata da decenni, perché questo ci fornisce l’alibi perfetto per la nostra ignavia. Il “così fan tutti” ci consente di continuare a fregarcene: a lasciare la macchina in doppia fila, a gettare la spazzatura fuori dai cassonetti, a non pagare le tasse e lamentarci di non avere servizi, a inveire contro i politici e fare la fila dietro la loro porta per chiedere un favore, persino a bollare come teatrali, superficiali o qualunquisti i segnali di discontinuità che iniziano ad arrivare.

Perché se un sindaco rinuncia all’indennità per mantenere lo stipendio da professore di scuola media facendoci risparmiare a occhio 100 mila euro l’anno, se sale sulla Vara con la maglietta di Addiopizzo ma non caccia a calci chi la Vara l’ha comunque nel sangue al di là dei “fattacci” degli ultimi anni, se va a Palermo per un incontro istituzionale e pranza con pane e panelle e mezza birra anziché “scendere al De Russie” a 500 euro a notte (per non parlare degli… extra) come faceva Buzzanca a Roma, allora sta facendo scena. E’ tutto “chiacchiere e distintivo”, tutto fumo e niente arrosto.

E invece, l’arrosto c’è. O comincia ad esserci, perlomeno. Essere il sindaco di Hiroshima significa anche aver bisogno di pochissimo per fare meno dei predecessori: a me, personalmente, basterebbe vedere i Tir definitivamente fuori dal centro, quell’obbrobrio dello svincolo di Giostra-Annunziata (d’altra parte lo ha progettato Rodriquez, mica Renzo Piano…) che almeno funzioni in entrambe le direzioni, i rifiuti che non traboccano più dai cassonetti. Poi più verde, più spazi per bambini, più piste ciclabili e zone pedonali. Forse poco, ma enormemente di più di quanto (indisturbati) hanno fatto per decenni i politici “bravi”, quelli competenti, quelli con lauree e curricula roboanti.


E a chi ora s’inalbera perché ci sono ancora le buche nelle strade e bofonchia che “non è cambiato niente” mi permetto di dire: mutu, buddaci. E dài una mano, se vuoi bene a questa povera città.

mercoledì 18 settembre 2013

Italia-Lituania, ecco la storia che ritorna

Chissà se giocatori e staff tecnico della Lituania hanno seguito la gara dell’ultima giornata del girone F agli Europei di basket in Slovenia, quella che ha assegnato loro l’avversaria nei quarti di finale. Probabilmente sì. Sicuramente avranno studiato la Spagna vice campione olimpica e detentrice del titolo continentale, ovviamente favorita per la vittoria sull’Italia e quindi per il terzo posto (cioè per l’accoppiamento con la “corazzata” baltica), e invece si sono ritrovati una fantastica Italia, capace di infliggere alle “furie rosse” la terza sconfitta nella rassegna slovena recuperando 11 punti di distacco, impattando allo scadere con un’invenzione di Datome e quindi dominando il supplementare per confezionare l’ennesima impresa di un torneo nato sotto i peggiori auspici a causa dei tanti infortuni e rivelatosi, finora, persino trionfale.
Chissà cosa avranno pensato in particolare Ksistof Lavrinovic e Robertas Javtokas, unici “superstiti” (il termine è quello giusto, come leggerete) di quell’incredibile precedente che oggi fortifica le menti e le speranze degli azzurri nell’affrontare una sfida apparentemente chiusa dal pronostico. E’ probabile, infatti, che a quasi dieci anni di distanza i lituani abbiano ancora gli incubi al pensiero della semifinale olimpica di Atene nel 2004, quando la squadra guidata da Antanas Sireika, fresca di titolo europeo e ancora imbattuta nel torneo a cinque cerchi, incrociò una specie di “armata Brancaleone” (per modo di dire) guidata in panchina da Charlie Recalcati e in campo da un terzetto che oggi serve la causa di Capo d’Orlando: Gianmarco Pozzecco, Gianluca Basile e Matteo Soragna.
Oggi come ieri (ma oggi meno di ieri), a dover fare un pronostico non v’è alcuna possibilità che l’Italia possa vincere. Gianluca Basile ci confidava qualche giorno fa che prima della partita gli azzurri si erano guardati negli occhi chiedendosi: “Ma come c… dovremmo vincere contro questi qui?”, visto che i lituani erano i vari Jasikevicius, Zukauskas, Stombergas, Siskauskas, Songaila, Maciauskas prima del xgrave infortunio… Insomma, tutti top players in Eurolega. Che andarono facilmente sul +11 prima che il “Poz” desse inizio a una vera e propria gragnuola di triple (18/28 di squadra) sotto la quale gli avversari sarebbero stati letteralmente sepolti: finì 100-91 e a chiuderla fu proprio il “Baso” con la sua settima granata, un tiro senza ritmo e praticamente dagli spogliatoi che riconsegnò all’Italia il +10 senza possibilità di recupero per gli avversari. Nacque lì, o almeno lì diventò leggenda, la definizione di “tiro ignorante” per una tripla – sconsiderata eppure a segno – del neo paladino.
Quella partita fu probabilmente la pagina più bella della storia del basket italiano – almeno per chi era troppo piccolo nel 1980 quando arrivò l’altro argento olimpico, quello di Mosca dove però gli americani non c’erano mentre ad Atene si dovettero accontentare del bronzo – insieme proprio all’amichevole contro gli Usa a Colonia, quando un indiavolato Pozzecco urlò ad Allen Iverson, nel suo inglese maccheronico, “Nobody can defense on me!”.
Oggi, la “manifesta inferiorità” dei reduci azzurri contro i bestioni lituani (la squadra più “grossa” dell’Europeo dopo la Croazia con il suo 2.03 di altezza media e tanti, tanti chili da stoccare sotto canestro) appare altrettanto evidente, ma come nel 2004 la sensazione è che l’Italia non abbia problemi ad andare oltre i suoi limiti. Senza Bargnani, Gallinari, Hackett, Mancinelli e Gigli, ha trovato comunque quattro uomini capaci non solo di andare in doppia cifra, ma addirittura di attestarsi intorno ai 14 di media con un miglior realizzatore inatteso quanto inevitabile come Alessandro Gentile, ventenne dell’Olimpia Milano che sembra papà Nando allo specchio (lui era mancino,  il pargolo è destro) ma ha la stessa cazzimma del genitore in un volto con sempre dipinta l’espressione da “figurati se non segnavo anche questo”. Ne mette 14,6 ad allacciata di scarpe, lo seguono il leader a intermittenza Marco Belinelli (14.1), quello silenzioso ma costante Gigi Datome (14.0) e Pietro Aradori, che ha i movimenti di uno che non potrebbe mai segnare e la faccia di uno che invece non potrebbe mai sbagliare (13.4) e che ha trovato un contributo di lusso dai vari Cinciarini, Cusin, Melli, Vitali.
Chissà se i lituani sanno cosa li aspetta domani sera alle 21 a Lubiana: un “frullatore” di difesa parossistica e transizione, un festival del tiro da tre, una dimostrazione pubblica di attributi e di voglia di sporcarsi le mani. Insomma, l’Italia di Pianigiani millésime 2013. Magari non basterà per entrare nelle prime quattro, ma anche il settimo posto che ci porterebbe ai Mondiali (l’accoppiamento in semifinale o nel tabellone dalla 5. all’8. posizione sarebbe rispettivamente con la vincente o con la perdente di Croazia-Ucraina) sarebbe un risultato incredibile viste le premesse.
Chissà, però, se invece gli azzurri ci regaleranno un’altra serata indimenticabile come ci hanno abituati in quest’Europeo. I lituani, secondo noi, già tremano.
(pubblicato sulla "Gazzetta del Sud")

martedì 10 settembre 2013

US Open: lo scambio più cattivo di sempre

Novak Djokovic, n. 1 del tennis mondiale
Non sarà ricordato come lo scambio più bello di sempre per vari motivi: intanto perché si è chiuso con un errore (che tuttavia definire “gratuito” sarebbe blasfemia) anziché con un colpo vincente. Poi perché sicuramente, nella storia, di scambi più spettacolari, conditi da colpi di classe e tocchi eleganti, in un Borg-McEnroe o in un Sampras-Agassi (giusto per non andare troppo lontano con la memoria, ai “gesti bianchi” di sua maestà Clerici per capirci) ne saranno stati giocati tantissimi. E anche perché chi ha vinto lo scambio ha poi perso il match. Però il lunghissimo, insistito, reiterato tentativo di omicidio reciproco perpetrato da Nole Djokovic e Rafa Nadal lunedì notte durante la finale dell’US Open merita un posto, ancorché piccolo e marginale, nella storia del tennis. Per quello che è stato e per quello che sarebbe potuto diventare. Il video è finito in tempo reale su Youtube, vale la pena vederlo. Partiamo dalla situazione di punteggio: Djokovic, n. 1 del mondo che la straordinaria condizione di Nadal (n. 2) relega abbastanza curiosamente al ruolo di sfavorito sulla “sua” superficie, ovvero il cemento di Flushing Meadows, ha perso il primo set 6-2 e si aggrappa al servizio nel secondo, provando poi a prendere fiducia sulla risposta. Il serbo, quasi all’improvviso, ha una chance: palla-break sul 3-2 in proprio favore. Nadal gli serve sul rovescio e cerca di tenere la pallina nella parte sinistra del campo di Djokovic con lo slice finché, variazione dopo variazione, spostamento dopo spostamento, lo scambio inizia a diventare più duro e il pubblico (che a New York non aspetta altro) inizia a rumoreggiare. I fuochi d’artificio sono accesi da un drittaccio anomalo dello spagnolo sul quale Nole si difende con un top robusto, e da lì è follia pura: altra mazzata, altra replica nerboruta del serbo e “ora giochiamo a chi tira più forte”. Si susseguono altri quindici-venti colpi con la pallina che sembra dover prendere fuoco, o deformarsi come il pallone dei cartoni di Holly e Benji, mentre viaggia da una riga all’altra rischiando di fare i buchi sul campo. A questo punto, entrambi i giocatori sono ovviamente in debito di ossigeno e cominciano ad accompagnare ogni randellata con un gemito sempre più alto – la Sharapova è silenziosa, al confronto – prima di fatica, poi quasi di dolore, infine di disperazione per quella specie di muro che chiude l’altra parte del rettangolo e rimanda indietro tutto quello che tirano, solo più forte e più vicino all’incrocio delle righe. Non sono tanto i 54 colpi – che già fanno uno scambio da ricordare – quanto questo mix di violenza e precisione, di furia assassina e geometria applicata a lasciare senza parole: e quando Nadal, trovatosi in mezzo al campo dopo aver fatto il tergicristallo per due minuti sani, mette in rete un rovescio quasi di controbalzo, il pubblico impazzisce e il telecronista di Eurosport inizia a urlare frasi sconnesse mentre Nadal mastica silenziose bestemmie e Djokovic, poverino, pompa le braccia al cielo come se avesse vinto il titolo. Il problema è che l’esultanza di Nole toglie al serbo praticamente tutte le (poche) energie residue, tanto che – spossato fisicamente e scarico mentalmente – dopo essersi issato sul 4-2 si trova subito 0-40 nel game successivo, nel quale restituirà il break pur dopo aver lottato e recuperato. Resisterà allo schiacciasassi Nadal il tempo di strappargli nuovamente il servizio per chiudere 6-3 il secondo set e di procurarsi ancora tre palle-break sul 4 pari nel terzo: perse queste opportunità, il campione del 2011 (e finalista altre tre volte con questa) si sgonfierà cedendo 6-4, 6-1 e consegnando al maiorchino il suo tredicesimo torneo del Grande Slam. Che per uno che ha dovuto sopportare per anni Roger Federer, non è poco.