Musica: Brunori Sas, all'improvviso un De Gregori


Solita premessa: a chi, come me, è nato negli anni Settanta ed è cresciuto abbeverandosi alla fonte della canzone d’autore italiana, è sempre mancato un riferimento generazionale. Intendo un cantautore da scoprire e seguire, del quale intuire le potenzialità e celebrare l’esplosione.
Se ci pensate, i nostri totem sono tutti nati negli anni Cinquanta o Quaranta: Francesco De Gregori, Lucio Dalla, Ivano Fossati, Fabrizio De Andrè, per non dire di Francesco Guccini o addirittura Paolo Conte. Quando avevo quindici anni, De Gregori pubblicava Terra di nessuno che è un album bellissimo, ma lui era già De Gregori. Sì, poi sulla scena della musica “colta” si sono affacciati tanti cantanti anche bravi, dotati, interessanti. Ma se ne facciamo una questione strettamente di genere, ecco: un cantautore “vero” nato negli anni Settanta non c’è. Beh, in realtà io forse l’ho trovato.

Ora, non voglio fare il fenomeno (non subito, almeno): Dario Brunori, anzi la Brunori Sas (la band che lo accompagna più o meno da inizio carriera:  Simona Marrazzo cori e percussioni, Dario Della Rossa piano e tastiere, Mirko Onofrio sax e fiati, Massimo Palermo batteria e Stefano Amato violoncello) l’ho sempre seguita un po’ distrattamente. All’epoca della Targa Tenco (2009, con il primo album Volume 1) mi aveva incuriosito più per il nome d’arte (mutuato dalla ditta di laterizi di famiglia) e per la provenienza calabrese che non per le canzoni, ancora legate a un mondo indie che sembrava quasi dover rifuggire l’impegno e la profondità per rifugiarsi nell’aneddoto, nel divertissement, persino nel cazzeggio. Le qualità, devo dire, erano già evidenti. Ma restava, almeno per me, un fenomeno ancora circoscritto a quell’ambiente e a quella sensibilità.


Simile, anche se più complesso e pensato, Vol. 2-Poveri Cristi, una galleria di personaggi con più di un’intuizione felice (Il giovane Mario, Una domenica notte, la struggente Bruno mio dove sei) ma anche con tanta voglia di non prendersi troppo sul serio (bastano Animal colletti e Rosa?). Insomma, se a quel punto della carriera di Brunori Sas avessi dovuto ascriverlo a una scuola, sarebbe stata quella di Rino Gaetano, Ivan Graziani, persino Gaber piuttosto che quella di De Andrè o Guccini.

Si intitola Vol. 3-Il cammino di Santiago in taxi il terzo album della Brunori Sas, che si colloca nella linea dei primi due ma che fa intravedere la futura (imminente) grandezza in brani delicati e musicalmente più complessi come Arrivederci tristezza e soprattutto Kurt Cobain, splendida e malinconica ballata che ha avuto tanto successo da "rischiare" di finire su XFactor. In realtà, c'era finita davvero perché Arisa l'aveva assegnata a un concorrente, Loomy, per la seconda manche di una puntata nella quale però fu mandato al ballottaggio dopo la prima e quindi non la cantò. Un peccato, ma forse neanche troppo per un personaggio come Brunori che, nel frattempo, si dilettava con un tour teatrale (Brunori Srl-Una società a responsabilità limitata), uno speciale per LaEffe insieme a Neri Marcorè e quant'altro. Il disco è comunque un ulteriore passo in avanti, anche se l'understatement resta il mood preferito del cantautore di Joggi che alterna alle ballatone pezzi come Mambo reazionario e insomma, diventa sempre più bravo ma resta il "primo" Brunori Sas.


Arriviamo ai giorni nostri, al quarto album A casa tutto bene che è uscito nei giorni scorsi, anticipato dalla pubblicazione di un bellissimo singolo (La verità, accompagnato da un video perfidamente “spaccacuore” girato nel centro di Cosenza) e da uno speciale per Sky Arte nel quale la band suona un “gioiello” che s’intitola Canzone contro la paura e che mi pare destinato ad essere la sua Donna cannone. La folgorazione è praticamente immediata, perché siamo – finalmente, verrebbe da dire – al disco della maturità di un musicista che ha tutto, ma veramente tutto per essere il feticcio della nuova canzone d’autore, il De Gregori del nostro tempo se vogliamo sbilanciarci un po’. (Ma giusto un po’.) Andiamo con ordine e godiamocelo brano per brano.

La verità: nel primo singolo tratto da A casa tutto bene Brunori introduce il tema della paura che costituisce il Leitmotiv dell’album, declinato in tutte le sue manifestazioni: l’inquietudine, il razzismo, il conformismo e via dicendo. Qui la chiave di lettura rimanda all’accidia, alla pigrizia comoda che nasconde il timore di non essere all’altezza e trascina nell’inazione. Ci sono testi più originali, ma la melodia non ha precedenti nella produzione di Brunori Sas, specie per quanto riguarda il ritornello. In più, si nota subito un diverso equilibrio – rispetto ai dischi precedenti – tra arrangiamento e produzione, una cura del dettaglio che si intravedeva appena ne Il cammino di Santiago in taxi (a proposito: già il titolo dell’album, a parte l’abbandono della classificazione in volumi, testimonia la svolta “seria” e impegnata del Nostro). Al video ho accennato, vi basti sapere che all’inizio ricorda Stand by me degli Oasis e che il messaggio inizia a tracciare il solco tra il cantastorie ironico e disincantato di prima e l’autore che affronta l’ambizione di fare la differenza.

L’uomo nero: ecco, nei brani tratti dall’attualità il “vecchio” Brunori si sarebbe limitato a sbeffeggiare. Il nuovo, invece, si interroga: sul razzismo, sul qualunquismo, sulla paura – ancora – che ci porta ad essere un po’ meno umani, a giudicare le persone in base a preconcetti e luoghi comuni. Il ritmo, ancorché non velocissimo, è reso incalzante da un arrangiamento tutt’altro che scontato. Non è solo un pezzo di passaggio, per quanto subito dopo arrivi – opinione personale, per carità – quello che va considerato finora il brano più felice della sua produzione: io il disco l’avrei chiamato proprio Canzoni contro la paura, ma mi rendo conto che sarebbe sembrato un po’ presuntuoso, anche se quando un autore arriva alla dichiarazione d’intenti sulla propria poetica va ascoltato sempre con attenzione.

In realtà, Canzone contro la paura sembra voler dire esattamente il contrario di quello che è invece il suo messaggio: un espediente retorico con tanti e nobili precedenti che suona un po’ come un «fingo di non essere all’altezza di un determinato passo proprio mentre lo faccio». E in effetti, in un continuo schermirsi per canzoni «poco intelligenti, che le capisci subito non appena le senti» o «buone da mangiare» come i funghi di Generale, Brunori Sas arriva a tratteggiare il suo nuovo corso quasi come preteso dall’ascoltatore: «E invece no, tu vuoi canzoni emozionanti/ che ti acchiappano alla gola senza tanti complimenti» e più avanti «Canzoni che ti salvano la vita / Che ti fanno dire: no, cazzo, non è ancora finita». Insomma, quasi una A muso duro scritta e contrario, per negazione. Brano straordinario, che strappa definitivamente Brunori dal novero delle giovani promesse per iscriverlo tra i cantautori fatti e finiti, maturi e consapevoli anche del ruolo della musica, della sua forza di analisi – ma anche di denuncia – della società di oggi, con le sue incertezze e le sue storture.

A questo punto, evidentemente Brunori sente la necessità di recuperare un pizzico di leggerezza: Lamezia Milano non è Rosa o Mambo reazionario, ma sembra piazzata a quel punto proprio per rinfrescare un po’ la sequenza, più dal punto di vista musicale che altro (visto che il testo non manca di rimandare ancora a concetti analoghi a quelli dei brani precedenti). Anche perché a seguire arrivano due pezzi tutt’altro che facili come Colpo di pistola e La vita liquida.

Colpo di pistola parla di femminicidio. E detta così, parrebbe l’ennesima ovvietà: tema attuale, presa di posizione scontata al limite della retorica, morale a poco prezzo. Tutt’altro: una ballata incantata e quasi sognante nella quale la storia è raccontata dal punto di vista dell’assassino che, un po’ come in Via Broletto di Sergio Endrigo, sembra quasi voler giustificare il gesto come logica conseguenza dell’abbandono o del troppo amore non ricambiato. Il tutto, prima di suicidarsi. Il risultato è agrodolce, mai scontato, poetico. Chi l’avrebbe mai detto.

La recente morte di Zygmunt Bauman (che Dario Brunori cita peraltro nello speciale di Sky Arte, “parlandone da vivo” come diciamo qui) rende tremendamente attuale La vita liquida, il cui protagonista è vittima della mancanza di punti di riferimento che caratterizza la società attuale, definita appunto “liquida” da Bauman.

Frida Kahlo e Diego Rivera
Anche i riferimenti colti non fanno più paura, a maggior ragione quando Brunori racconta una storia d’amore che sulla paura (della morte, della perdita, dell’inadeguatezza, dell’incapacità stessa di amare) è fondata come quella tra Frida Kahlo e Diego Rivera. Diego e io è a tutti gli effetti una poesia, quasi un’elegia, semplice nella struttura e ispiratissima nel testo, alla quale l’arrangiamento degli archi conferisce una grazia quasi sospesa tra la disperazione e la sublimazione.

Sabato bestiale: altro che Concato, questo è un terrificante viaggio nello “sballo”, nel qualunquismo, nell’odio, insomma nei meandri più ributtanti e irredimibili della nostra società. Con tanto di sberleffo a un interlocutore preso per buonista.

Don Abbondio: l’altra faccia dell’Uomo nero. Il pavido borghese che accetta supinamente i riti di una società corrotta tra consumismo e consapevolezza della fine.

Il costume da torero: altra piccola delizia di questo disco. Parte come Something stupid e continua con la suprema cattiveria di far cantare «La realtà è una merda» ai bambini di un coro di voci bianche.

Secondo me: per la prima volta, qualcuno dà ragione anche ai vegani. Tutte le contraddizioni tra la sfera pubblica e quella privata, tra la facciata e la sostanza. Altro brano splendido (e molto, molto ben arrangiato) che non fa sconti: «Se canti il popolo sarai anche un cantautore, / sarai anche un cantastorie ma ogni volta ai tuoi concerti / non c’è neanche un muratore».


La vita pensata: riflessione finale (mascherata) sul ruolo dell’intellettuale e più in generale sul peso di interrogarsi, di chiedersi cosa sia questa vita: «La vita va vissuta senza trovarci un senso, / la vita va vissuta / e invece io la penso». Chiaramente, le parole rendono ben poca giustizia a un disco eccellente che segna il definitivo salto di qualità - anche dal punto di vista strettamente musicale - di Brunori, destinato a diventare un’icona della canzone d’autore di qui a pochissimo. Ho evocato all’inizio Francesco De Gregori; ebbene, a parte la barba e una certa tendenza alla scansione del verso che ricordano da vicino il “Principe”, mi sembra che proprio quel mix di rétro e modernità che ha sempre caratterizzato i dischi della Brunori Sas lo collochi, ora che ha accettato di dispiegare il suo talento senza schermirsi troppo, esattamente in quella linea. E’ nata una stella?, come il titolo della colonna sonora che ha scritto qualche anno fa? Beh, forse è “solo” definitivamente cresciuta e ha iniziato a brillare di luce propria. Finalmente.

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