domenica 29 gennaio 2017

Un unico, lunghissimo “momento Federer”

David Foster Wallace – che prima di diventare lo scrittore “feticcio” di una generazione era un tennista di belle speranze – in un editoriale sul New York Times intitolato Roger Federer as religious Experience ha coniato l’espressione “momento Federer” per designare quel lampo di inimitabile grandezza, quello squarcio di assoluto che solo il Re, in un particolare stato di grazia, è capace di dispensare al suo pubblico e agli appassionati. A rigore, quindi, l’intero quinto set della finale di Melbourne contro Nadal è stato un unico, lunghissimo “momento Federer”.

Dubbi? Vediamo. Foster Wallace prosegue elencando i sintomi procurati da un “momento Federer” nello spettatore: «The jaw drops and eyes protrude and sounds are made that bring spouses in from other rooms to see if you’re OK» («La mascella cade, gli occhi strabuzzano e vengono emessi suoni che fanno precipitare le signore dalle altre stanze per chiederti se stai bene»). Alzi la mano chi, seduto ­­– si fa per dire – davanti alla tv, non si è disperato quando Re Roger ha subìto il break in apertura del quinto set, ha mancato quattro palle break nei due successivi turni di servizio di Nadal ed è andato sotto 3-1 sembrando ancora una volta in balìa della sua “nemesi”, un avversario che è quasi sempre stato sotto di lui in classifica ma che nei confronti diretti lo ha spesso dominato, intimidito, ridotto al silenzio con i suoi recuperi impossibili, il suo arpione mancino di dritto, i suoi passanti malefici.

O ancora quando, dopo aver recuperato il servizio, Roger ha dovuto fronteggiare altre palle-break che lo avrebbero precipitato diritto all’inferno, facendo sfumare forse l’ultima occasione di vincere il diciottesimo Slam (come lui nessuno mai, nemmeno Pete Sampras). Occasione che anche a noi tifosi, anzi a noi fedeli di Federer era parsa subito irripetibile perché, pur nello splendore di un’impresa titanica come arrivare in finale in uno Slam a 35 anni e mezzo, dopo sei mesi di stop per infortunio, battendo una serie di “top ten” e vincendo già due partite al quinto, Re Roger era stato fortunato. Fortunato quando un insospettabile Misha Zverev gli aveva tolto di mezzo il n.1 del mondo Andy Murray e fortunato quando in semifinale, anziché un atleta del livello di Tsonga contro il quale mai e poi mai avrebbe vinto se la partita si fosse allungata, gli era toccato affrontare il povero Wawrinka che ha pagato per l’ennesima volta dazio al suo complesso di inferiorità nei confronti del connazionale, “suicidandosi” quando aveva il match praticamente in pugno.

L'abbraccio tra Roger e Rafa Nadal
Alzi la mano anche chi non si è rumorosamente esaltato per la rimonta, quel parziale di cinque giochi a zero, quell’ultimo sforzo arrivato quando il Re sembrava nudo, stanco, anzi stremato e pure infortunato (il medical timeout prima del quinto set, come già in semifinale, sarà anche un espediente per recuperare fiato ma, se non avesse avuto davvero problemi all’adduttore, Roger non lo avrebbe mai chiesto). Perché Federer, dopo aver triturato Berdych e Zverev ed essere venuto a capo di Nishikori e Wawrinka, per l’ultimo atto si era quasi “scelto” l’avversario più difficile dichiarandosi primo tifoso di Rafa e concedendo che una finale tra i due, a dieci anni dall’ultima volta in uno Slam, sarebbe stata epica. Ed epica è stata, specie da quel momento in avanti: perché lo svizzero è tornato bellissimo e regale, ha mantenuto l’atteggiamento offensivo anche nello scambio da fondocampo, anticipando i colpi fino a rischiare regolarmente il controbalzo, non ha tremato nei momenti di difficoltà. Ha persino intimorito Nadal che, per converso, ha smarrito l’incisività, la cattiveria, il cinismo accettando ancora una volta il destino di eterno secondo che, per il campione che è, non avrebbe probabilmente meritato (ma si può “consolare” con 9 Roland Garros e 14 Slam totali...) e che certamente non gli sarebbe toccato se in giro, negli stessi anni, non ci fosse stato Re Roger.

Alzi, alzi pure la mano chi non si è dovuto chinare per raccogliere da terra la mascella caduta dopo lo scambio terrificante da 26 colpi chiuso con un dritto lungolinea tirato da ballerino più che da tennista, in allungo, trovando miracolosamente l’appoggio all’ultimo istante e spazzolando l’incrocio delle righe. O chi non ha fatto tanto d’occhi quando il rovescio incrociato del Re ha inchiodato Nadal a fondocampo impedendogli di costringere Federer a un “tergicristallo” che, a quel punto del match, lo avrebbe schiantato. O chi non si è fatto (più o meno) bonariamente rimproverare da moglie o fidanzata per gli urlacci sui punti decisivi, neanche giocasse la Juve. O chi non ha grufolato pietosamente dopo il match-point per cercare di nascondere la lacrimuccia che premeva sulle ghiandole e niente, voleva uscire a tutti costi ed è uscita lo stesso.


Federer a Wimbledon: l'ultimo sogno
Anzi, facciamo così: invece di alzare la mano, alziamo le mani. Arrendiamoci e consegniamoci alla bellezza suprema di questo atleta gentiluomo, così timido e cortese da non riuscire letteralmente a farsi odiare nonostante, per diversi anni, il suo predominio sul tennis mondiale sia stato tirannico, soverchiante, a tratti persino imbarazzante. Inchiniamoci a questo campione assoluto, unico e inimitabile ­– e chissenefrega se sia il più forte di sempre o meno – e preghiamo, tutti insieme, che prima di ritirarsi vinca almeno un ultimo Wimbledon. Perché è lì, in quello che Pete Sampras amava definire “il giardino di casa sua”, che è giusto che questa storia si compia e si trasfiguri definitivamente in leggenda.

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