«Io, Drake Diener, un uomo fortunato: Gioco a basket col morbo di Crohn»

Nel corso della stagione 2007/2008, la prima a Capo d'Orlando, Drake Diener parlò per la prima volta della sua lotta contro la malattia in una lunga intervista alla Gazzetta del Sud. E' stata una delle esperienze che mi hanno insegnato di più in venticinque anni di professione, e oggi che proprio i canestri di Diener hanno riportato l'Orlandina, dieci anni dopo, alle Final Eight di Coppa Italia mi sembra giusto riproporla.

IL PERSONAGGIO / IL DRAMMA DELL’AMERICANO DELLA PIERREL PRIMA DEL DRAFT NBA DEL 2005
«Io, Drake Diener, un uomo fortunato
Gioco a basket col morbo di Crohn»
Cinque mesi da un ospedale all’altro e 25 chili persi prima della diagnosi giusta
Max Passalacqua
Drake Diener ha la faccia da ragazzo
educato del Midwest, con
gli occhi azzurrissimi a incorniciare
un’espressione di grande timidezza
e diversi capelli bianchi
che un po’ stonano con i suoi nemmeno
ventisei anni. Oggi, è tranquillo
e sereno: gioca a basket in
serie A ed è uno dei migliori realizzatori
del campionato, a oltre
20 punti di media, nella Pierrel
Capo d’Orlando costruita intorno
a Pozzecco e che invece ha messo
in luce le straordinarie doti di
questa guardia dal tiro mortifero
e dall’intelligenza cestistica sterminata,
evidentemente ereditata
dal padre allenatore.
Drake, però, è un reduce. Reduce
da un’esperienza nella quale
ha temuto non solo per la carriera,
ma addirittura per la vita. Cinque
lunghi mesi di pellegrinaggio
da un ospedale all’altro prima della
diagnosi giusta per quei dolori
lancinanti all’addome: morbo di
Crohn, una malattia degenerativa
che colpisce l’intestino.
«Non ricordo esattamente come
e quando sia iniziata – raccon -
ta Drake – so che alla fine della
mia stagione da senior al college
ero sempre affaticato, poi da metà
maggio ho avuto sempre più spesso
forti dolori addominali che mi
hanno portato in ospedale a Chicago,
dove giocavo con la DePaul
University. Gli esami, però, non
sono stati risolutivi tanto che i medici
hanno pensato a un’appendi -
cite: durante l’intervento chirurgico,
che doveva essere di routine,
mi hanno invece trovato una massa
nell’addome e così l’operazione
è durata ben cinque ore».
Ed è lì che è iniziata la paura.
«Sono tornato a casa una prima
volta, ma le mie condizioni hanno
continuato a peggiorare e ho perso
25 chili di peso; non riuscivo a
camminare, ero bloccato a letto in
attesa della diagnosi giusta che
poi è arrivata a ottobre a Milwaukee:
morbo di Crohn, una malattia
che non sapevo neanche esistesse.
Avevo già un altro intervento
chirurgico fissato per l’ini -
zio del 2006,ma con le cure adatte
non ho più avuto problemi e mi
sono lentamente rimesso».
Il Crohn è un male non curabile,
ma trattabile. Come lo tieni a
bada e, soprattutto, ti capita di
avere ancora dolore?
«No, per fortuna da ottobre 2005
non ho più avuto dolori. E sono
stato fortunato anche nella gestione
della malattia perché prendo
solo 5-6 pillole al giorno, mentre
conosco persone che sono costrette
a prenderne anche venti».
Facendo qualche ricerca
sulla tua storia, mi hanno impressionato
due cose che racconti.
Il “sollievo” quando hai
scoperto che si trattava di
Crohn, e la risposta a chi ti diceva
che la malattia ti aveva colpito
nel momento peggiore: “Non
posso immaginare cosa sia per
un ragazzo di 10-12 anni”.
«Anche se da principio i medici
avevano praticamente escluso il
cancro, quel “praticamente” non
ci lasciava del tutto tranquilli. In
quello stesso periodo era ricoverata
in un altro ospedale della
stessa città un’amica di famiglia e
i suoi venivano a trovarmi dopo
essere andati da lei, quindi la differenza
tra le due malattie era ben
presente nellemie giornate. È vero,
però, che se alla mia età è stato
terribile perdere peso, star male e
non potermi muovere, se la stessa
cosa accade a un bambino di
10-12 anni è ancora peggio, perché
a quell’età tutto quello che
vuoi fare è uscire, giocare all’aria
aperta, e non puoi farlo».
La tua è una famiglia che vive
di basket: tuo padre allenava il
tuo liceo, tuo fratello Drew ha
giocato a St. Louis e ora è assistente
allenatore alla University
of Virginia, tuo cugino Travis
gioca nella Nba a Indiana.
Cos’hai pensato quando tuo padre
ha smesso di allenare per
seguire le tue cure?
«In realtà credo che avrebbe comunque
smesso di lì a poco, anche
se il mio problema ha sicuramente
accelerato la sua decisione.
Tra l’altro, quando ho avuto il
secondo attacco a metà luglio tornavamo
proprio dalla Virginia dove
eravamo andati a trovare mio
fratello. In quel momento, è chiaro
che la mia speranza era solo di
rimettermi in piedi; tornare a giocare
a pallacanestro era una prospettiva
lontana».
In questi anni hai spesso collaborato
con fondazioni e istituzioni
benefiche sia negli States,
con “Camp Oasis” e le due edizioni
di “Cagers for Crohn” pro -
prio nella tua Fond du Lac, sia
l’anno scorso con la Fondazione
Ibd di Varese. Qual è il messaggio
che cerchi di trasmettere
quando parli con qualcuno, magari
un bambino, che ha la tua
stessa malattia?
«Non penso di poter dare chissà
quali messaggi, però credo che
vedermi ora, in salute e in grado
di giocare nuovamente, già aiuti
queste persone. Ricordo un bimbo
col quale ho parlato a Varese,
ha capito che anche con questa
malattia si può condurre una vita
normale». Normale sì, ma a 20
punti a partita...

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