martedì 28 ottobre 2014

COMUNALI A REGGIO CALABRIA, quarto mandato per Italo Falcomatà. Ma da ora tocca a Giuseppe

Italo Falcomatà, sindaco di Reggio dal 1993 al 2001
Nel 1993, quando il professore comunista Italo Falcomatà diventava sindaco di una Reggio Calabria letteralmente devastata da Tangentopoli e dalla guerra di ’ndrangheta, andavo ancora all’Università e la  frequentazione con una collega reggina – che oggi è una brillante giornalista e scrittrice – mi consentì di prendere pian piano contatto con una realtà che per me, fino ad allora, aveva coinciso essenzialmente con la strada verso Pentimele che facevo la domenica per andare a vedere la Viola basket.
Un giorno, passeggiando per Messina, mi scioccò affermando: <<Certo che Messina è proprio una bella città, avete un sacco di alberi!>>. Onestamente, non avevo mai pensato a Messina come una “bella” città: sì, per posizione e impianto originario sarebbe potuta essere stupenda, ma ero già ampiamente abituato a vederla vilipesa e consegnata al degrado per ammirarla. Eppure – come avrei potuto verificare passando lo Stretto più e più volte – aveva ragione: in confronto a Messina ma anche in linea generale, all’epoca Reggio era bruttissima. Sporca, spoglia, morta, più simile a un paese che a un capoluogo di provincia (e su questo aspetto sorvolo, ma sapete di che parlo).
Reggio, però, aveva avuto una clamorosa botta di fortuna: eleggere Italo Falcomatà. Tanto che, dopo quel primo mandato deciso dal consiglio comunale in seguito alle dimissioni di Giuseppe Reale, nel 1997 il professore pidiessino sarebbe stato riconfermato nella prima elezione diretta del sindaco e, pur non avendo la maggioranza in consiglio comunale, avrebbe talmente inciso sulla rinascità della città (la “Primavera reggina”, ricorderete) da ottenere un terzo mandato, stavolta con Pds e Margherita al 28% e la maggioranza nell’aula di Palazzo San Giorgio, nel 2001. Pochi mesi dopo, Italo Falcomatà avrebbe annunciato di avere la leucemia alla quale si sarebbe arreso a dicembre di quell’anno. Ricordo le lacrime di un collega della redazione di Reggio per la morte del “suo” sindaco, o le immagini del funerale: sembrava quasi il corteo che attraversava Cinisi per ricordare Peppino Impastato, con tutta la città – la città del “boia chi molla”, la città di destra per antonomasia – in strada a salutare l’uomo che l’aveva fatta rinascere.
Sì, perché in quegli otto anni Reggio Calabria aveva vissuto una trasformazione incredibile: soprattutto sbloccando i fondi del “decreto Reggio”, Falcomatà era riuscito a riqualificare, abbellire, rendere vivibili zone degradate, a creare le condizioni per un rilancio delle attività commerciali e della movida, a regalare il completamento del “chilometro più bello d’Italia”, il lungomare che oggi è dedicato proprio a lui. Uomo di spessore e di coerenza al di là dell’appartenenza politica, rimediò persino una denuncia per non aver voluto rimuovere il fascio littorio dal Municipio e rischiò tantissimo firmando sotto la propria responsabilità l’agibilità dello stadio ancora non pronto per l’esordio della Reggina in serie A.
Il figlio Giuseppe, appena eletto sindaco dopo due anni di commissariamento per infiltrazioni mafiose nelle amministrazioni di centrodestra prima guidate e poi ispirate da Peppe Scopelliti, aveva appena 18 anni quando Italo Falcomatà morì: troppo giovane per diventarne subito l’erede, ruolo che parve toccare al vice sindaco (e poi facente funzioni) Demetrio Naccari Carlizzi sconfitto però proprio da Scopelliti alle comunali dell’anno successivo. Proponendosi come continuatore proprio dell’azione di Falcomatà, Scopelliti innestò sulla “primavera” il cosiddetto “modello Reggio” del quale tutta l’Italia ha recentemente scoperto il doppiofondo. E proprio questo è il primo dato che spiega i risultati del voto di domenica: tra due idee di sviluppo, consegnando a Giuseppe Falcomatà la vittoria al primo turno e la maggioranza in consiglio comunale la città ha scelto quello che non aveva il “lato oscuro”. Domenica, senza mezzi termini, è maturato il quarto mandato – postumo, quasi in memoriam – per Italo.
Mi dicono che Giuseppe sia un ragazzo intelligente, e sicuramente non vivrà questa pesante eredità come un limite: i reggini sono convinti che lui abbia un vantaggio rispetto agli altri, ovvero il Dna di Italo, e per questo hanno affidato il loro futuro a un novizio della politica – renziano della prima ora, ex capogruppo di opposizione dopo essere stato consigliere circoscrizionale – che nelle primarie del Pd aveva vinto con appena 200 voti di scarto nei confronti di Mimmo Battaglia, altro “figlio” (in senso politico, stavolta) di cotanto padre. Molto più netta la sua affermazione alle urne di quella nella scelta del candidato sindaco della coalizione: altro dato, questo, che deve far riflettere.

Ora, però, tocca a lui. Finora si è mosso bene, ha resistito alla tentazione di mettere in lista pezzi di quel centrodestra che muove ancora migliaia di voti, aprendo piuttosto ai centristi che si erano allontanati dallo scopellitismo imperante. Ma ora si tratta di amministrare una città allo sbando, prima depredata e da due anni commissariata, e non sarà facile. Nell’entusiasmo della vittoria ha parlato di “nuova Primavera”, ed è quello che i reggini si aspettano da lui: che sia un nuovo Falcomatà. D’altra parte, chi se non lui?

martedì 14 ottobre 2014

Poz è tornato, arrendetevi!

E così, eccovi qui. Tutti increduli, tutti travolti dal “ciclone” Pozzecco al quale è bastata una sola giornata per devastare il campionato di serie A e l'intero basket italico. Tutti a bocca aperta davanti a quell'esultanza folle, incontrollabile, “ignorante” direbbe qualcuno, dopo la vittoria nel derby del destino, quello contro Cantù all'esordio sulla panchina di Varese. Eccovi tutti a chiedervi: ma ci è o ci fa? E c'è sostanza – sostanza tecnica, qualità come allenatore – dietro lo show che ha regalato ai tifosi biancorossi e alle telecamere di RaiSport, o si rivelerà un bluff? D'altra parte, da giocatore non è mai sembrato uno così accorto tatticamente...
L'esultanza di Pozzecco (cantunews.it)

         Ecco, basta. Finitela. Anche la protesta per l'arbitraggio dopo la sconfitta in un'amichevole di preseason, che pure aveva fatto sollevare più di un sopracciglio “coronato”, prendetela – se potete – per quello che è: l'espressione di un amore talmente grande e incondizionato per il basket da rendergli letteralmente impossibile tacere su qualcosa che non è andato, che magari dal suo punto di vista ha rovinato una bella partita. Una cosa che, alla lunga, farà persino bene al nostro basket.
         Faccio un po' il fenomeno: a noi che lo conosciamo, che oltre ad averlo ammirato in azione da giocatore – in quell'ultima, fantastica stagione della sua altrettanto fantastica carriera – abbiamo seguito i suoi esordi sulla panchina, sempre a Capo d'Orlando in serie A2, viene solo da dire che ancora non avete visto nulla. E che farete bene ad essere preparati: vi sembra eccessiva l'esultanza di domenica scorsa? Non avete idea di quello che sarà capace di fare quando perderà. Non vi è piaciuto l'atteggiamento in conferenza stampa nell'occasione precedente? Tranquilli, quando sarà il momento non dovrete nemmeno chiedergli se pensi di aver sbagliato qualcosa, perché sarà lui a parlare di questo con un'onestà che si ascolta poche volte nel mondo dello sport, specie quando la pressione è tanta. E soprattutto, farete bene ad essere preparati a non annoiarvi mai dopo il quarantesimo.
         L'anno scorso, tra la diffidenza generale – quanti “soloni” pontificavano ad inizio stagione: è pazzo, è antipatico e con il suo atteggiamento rende antipatica anche la squadra, finirà per danneggiare Capo d'Orlando – è arrivato in finale per la promozione, propiziando il successivo ripescaggio arrivato quando già, tra le lacrime (anche qui: non illudetevi, ne vedrete tante e saranno sempre sincere), aveva scelto di tornare a Varese dove è una spece di genius loci, l'uomo della stella, dove è addirittura venerato e dove, come a Capo – e qui forse iniziate a capire la sua intelligenza, la sua lucidità: altro che pazzia! – tutto gli è permesso.

         Aveva, in tutta onestà, una squadra molto buona: quintetto atletico e di talento, un go-to guy come Mays, la scoperta Archie (scoperta di Peppe Sindoni, ovviamente) e, a mettere una pezza quando gli americani o i giovani andavano fuori giri, un trio di “vecchioni” terribili come Basile, Soragna e Nicevic che gli hanno risolto non poche situazioni complicate. La squadra però ha giocato quasi sempre un buon basket, fatto di difesa – difesa! – e transizione, ha avuto vuoti mentali praticamente in tutte le partite ma quasi tutte le ha portate a casa. Per la disperazione dei “soloni”. Ecco, se posso darvi un consiglio non iscrivetevi in questo novero: non so dove possa arrivare Varese (che è una buona squadra, certamente da playoff), ma sono pronto a scommettere che alla fine di questa stagione tutti lo vorrete come allenatore della Nazionale, tutti vorrete che ci porti alle Olimpiadi. Andrà così, sicuro come l'esultanza, le lacrime, le sparate. Poz è tornato. Arrendetevi.