Lolito Genovese. Confessioni di un maschio bianco(fiore)

Luigi sr., Francantonio, Chiara, Luigi jr. e Angelina (foto Enrico Di Giacomo)
Luigino, luce della mia vita, frutto dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lui-gi-no: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per chiudere la bocca, al terzo, e lasciar uscire l’aria dal naso. Lui-gi-no. Era Gigi, semplicemente Gigi al mattino, ritto nel suo metro e quarantasette con un calzino solo. Era Gino in pantaloni. Era Luigi alla Luiss. Era “Genovese Luigi” sulla linea tratteggiata dei documenti. Ma tra le mie braccia era sempre Luigino.


Mi chiamo Francantonio Francantonio. Sono nato la notte di Natale, il giorno giusto ma con quasi due millenni di ritardo, e all’età di un anno e mezzo avevo già una quindicina di miliardi su un conto svizzero. Merito di papà, Luigi anche lui, falegname prestato alla politica come zio Nino; dicono facesse il postino, ma io l’ho conosciuto già ministro. Era il fratello di mamma Angelina, il vero capofamiglia (in Palestina allora c’era il matriarcato). Un giorno, un amico imprenditore che aveva avuto una grande idea – armare una flotta di triremi per attraversare il Mar Morto – chiese loro di diventare soci e, in cambio, di garantirgli il monopolio su quella tratta, essenziale per collegare Gerusalemme con il distretto turistico di Madaba, in Giordania, sulla Via Regia: una strada che al confronto la Salerno-Reggio Calabria è una freeway americana, e pensate che per passare il Mar Morto volevano farci un ponte! Secondo l’amico di papà, se nessun altro avesse potuto insidiare la posizione dominante della sua flotta e le stesse Ferrovie palestinesi avessero trascurato o, meglio ancora, abbandonato la tratta ne sarebbero derivate ricchezza e prosperità per tutti. Tutti compresi noi, ovviamente.

Come quei soldi siano arrivati in Svizzera (visto che allora la Svizzera nemmeno esisteva), o come
Genovese ha aderito a Forza Palestina
negli anni abbia preso io in mano le redini di quell’operazione e di tante altre è irrilevante, in questa storia. Come lo è il mio percorso politico: cresco nel Biancofiore, poi in Palestina arriva il ciclone “Croci pulite” e devo trovare una collocazione. Il primo assessorato con il centrodestra alla Provincia di Gerusalemme, il passaggio al centrosinistra per sfuggire a Erode Buzzanca e trovare spazi, consenso, un elettorato saldo e fedele. Perché i voti mica si trovano sulla luna, come dice mio cognato Franco. La sindacatura di Betlemme, l’Assemblea regionale palestinese, il Senato romano: lasciate perdere, oggi voglio parlarvi d’altro. Di Luigino, luce della mia vita, frutto dei miei lombi... insomma, avete capito.

Sapete perché quelle del Vangelo si chiamano “parabole”? Perché disegnano un’ascesa e una caduta, esattamente come la mia. Solo che la mia caduta somiglia più a una valanga: un giorno ero il Messia, moltiplicavo pani, pesci, pacchi di pasta e paia di scarpe per la miriade di apostoli e questuanti che facevano la fila dietro la porta della mia grotta di via Primo Settembre (Re Magi niente, tutt’al più facevo arrivare oro, incenso e mirra con qualche “spallone”), e il giorno dopo ero inchiodato a una croce, ai lati Franco e mia moglie Chiara, mentre gli stessi che fino a pochi secondi prima avevano bussato per un posto di precario, un corso di formazione, un aiuto economico, ora tra me e Barabba Accorinti sceglievano lui.

E poi il tradimento di Giuda Renzi che mi fa arrestare per trenta voti in Senato (ma più avanti si impiccherà a un albero di referendum), il carcere, le frustate, la condanna ma soprattutto le verifiche fiscali: l’Erario pretende di riempire il tempio di Saturno al Foro con i miei milioni, i soldi di papà, di mamma, di zio, insomma della mia famiglia. A proposito di famiglia: l’umiliazione più cocente arriva proprio al Foro, quando un giudice caccia il mio Luigino, luce della mia vita eccetera eccetera, e lo prende pure in giro: «Tra l’altro non so neppure se sia maggiorenne», dice. Altroché se è maggiorenne, lo saprò bene visto che appena ha compiuto diciott’anni gli ho intestato tutto. Compresi i voti per essere eletto alla Regione.

Francantonio Genovese con il figlio Luigi (stampalibera.it) 
D’altra parte, Lolit... ehm, Luigino non è più un “ninfetto”, quel ragazzino timido che arrossiva davanti alle fanciulle in fiore al Maurolico; è uno studente di legge alla Luiss – questo è quello che ho detto a Ponzio Pilato Musumeci – e non è “impresentabile” nonostante la mia crocifissione, perché le colpe dei padri non devono ricadere sui figli ma le partecipazioni azionarie sì. E’ un uomo, ha ventun anni e le spalle larghe, un seggio alla Regione ed è già indagato per riciclaggio: anche in questo è il mio erede, l’erede di tre generazioni che in politica hanno speso una vita (oltre ai fondi della formazione). Ecco, questo è il mio ultimo messaggio per lui.

Spero che quel Musumeci ti tratti sempre bene, altrimenti il mio spettro si avventerà su di lui come fumo nero, come un gigante forsennato, e lo dilanierà nervo per nervo. E non ti commuovere per la sorte di N.G. [Nino Germanà]. Si doveva scegliere fra lui e F.F. [Francantonio Francantonio] e si doveva lasciar esistere F.F. per un altro paio di mesi almeno, in modo che egli potesse farti vivere nella tessera elettorale delle generazioni successive. Penso ai rappresentanti di lista e ai galoppini, al segreto dei collegi blindati, ai manifesti profetici, al rifugio della politica. E questa è la sola immortalità che tu e io possiamo condividere, mio Luigino.

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