lunedì 5 dicembre 2016

Referendum: per Renzi una bocciatura nata... a scuola

Le lacrime di Matteo Renzi (huffingtonpost.it)
Tanto per cominciare, se siete d’accordo (e anche se non lo siete: so che a molti non piacerà quello che ho da dire), togliamoci dalla testa l’idea che abbia vinto la volontà degli italiani di difendere la Costituzione. Certo, c’è stata una fascia di italiani che ha votato in funzione del giudizio che si era fatta sulla riforma, e io sono tra questi; ma io sono un ex secchione, un professorino pignolo, un precisino da “comma 1, lettera a”, uno per il quale non è rivoluzionario considerare “cavilli” una Costituzione, un contratto nazionale o più in generale le regole. Quindi, sia numericamente che ideologicamente, conto pochino.

Qualcuno ha scritto che il 90 per cento degli italiani vota per sentito dire: la percentuale è probabilmente iperbolica (faccio un esempio banale: su un blogghetto di periferia come il mio, i tre post di analisi della riforma hanno totalizzato millecento visualizzazioni. Quindi a tanti la questione interessava), ma il concetto non va sottovalutato. Nel senso che la stragrande maggioranza degli elettori si è orientata per il “sì” o (soprattutto) per il “no” sulla base di altro: l’antipatia o comunque un giudizio negativo nei confronti di Renzi, l’aggressività della campagna, non tanto di stampa quanto di opinione – propagandata soprattutto sui social anche a forza di “bufale” –  contro di lui, e a fronte di questa una congerie di bugie e mezze verità messa insieme per cercare di giustificare l’ingiustificabile e difendere l’indifendibile (perché se a un paio di giorni dal voto mi tiri fuori una scheda farlocca per sostenere che saranno i cittadini a indicare quali consiglieri regionali possano diventare anche senatori, quando la riforma dice chiaramente che «i consigli regionali eleggono i senatori fra i loro componenti», un po’ preso per il culo mi sento).

Mettiamoci anche il vento grillino, i timori per i riflessi di questa riforma su un “Italicum” ancora vivo e con un premio di maggioranza abnorme, l’insofferenza del Nord-Est per le politiche sull’immigrazione (77% di affluenza e 62% di “no” in Veneto), la disperazione di un Meridione stretto tra la povertà e... la povertà (basta il 72% di voti contrari in Sicilia, il 68% in Campania, il 67% in Calabria, tutte regioni governate dal Pd?) e il quadro è pressoché completo.

Ma gli errori di Matteo Renzi sono partiti prima, molto prima. Il premier dimissionario può benissimo lamentare che, all’inizio dell’iter, la riforma avesse in Parlamento una piattaforma di sostenitori sufficientemente ampia, ma se via via il Pd è rimasto da solo a portarla avanti è principalmente colpa sua: dei suoi continui strattoni, della sua tendenza a porsi da una posizione di superiorità in qualsiasi trattativa e così via. Questo per quanto riguarda le forze politiche. Poi, però (anzi, prima), aveva fatto in modo di rimanere da solo anche rispetto all’elettorato storico della sinistra prima e del Pd poi: litigando con i sindacati, abbandonando – anche per colpa della crisi, per carità – gli operai e soprattutto mortificando gli insegnanti. Ai tempi del Pci ­– lo ricordavo in un altro post qualche tempo fa – si diceva «tutti, ma non i professori»; invece Renzi, nella sua ossessione populista, da una parte si è bullato di aver assunto millemila precari (ma era costretto da una sanzione della Corte di Giustizia Europea), dall’altra ha cavalcato il qualunquismo e il becero preconcetto nei confronti degli insegnanti che “lavorano18oreallasettimanaehannotremesidiferieliassumonoepuresilamentanoperché nonsonosottocasa”. Argomenti la cui falsità è ben nota a chiunque abbia un professore in famiglia. E il mondo della scuola, che al centrosinistra aveva perdonato persino la pessima riforma Berlinguer (anche perché dopo era arrivata la piaga d’Egitto della Gelmini a ristabilire i ruoli...), lo ha pesantemente mollato.

Di Battista, Giulia Grillo e Di Maio nella conferenza stampa post voto 
Epperò, un attimo di cautela prima di dare Renzi per morto. Senza più alleati nell’arco costituzionale, senza l’appoggio della sinistra che ha fatto campagna per il “no”, senza una fetta consistente del suo elettorato, senza la stessa minoranza del partito, il premier ha portato alla causa del “sì” quasi 13 milioni e mezzo di voti. Dal momento che, per polarizzazione e personalizzazione, non è peregrino considerare questo referendum come un voto politico, se dall’altra parte nessuno (nemmeno Grillo) può ascriversi una qualsiasi percentuale degli oltre 19 milioni di “no” è un fatto che – a parte Alfano e Verdini, figurati – quei voti per il “sì” siano, in una qualche misura, voti di Renzi. Per capirci: se contemporaneamente al referendum ci fossero state le Politiche, quanti di quei 13 milioni e mezzo di elettori non avrebbero votato Pd? Pochi, pochissimi.

Bene. Quando il Pd, nel 2014, ha stravinto le Europee conquistando il 40,8% dei voti e doppiando il
Maurizio Crozza e Pierluigi Bersani (corriere.it)
Movimento 5 Stelle, ha ottenuto 11 milioni e 200 mila voti. La percentuale spaziale era dovuta al fatto che avessero votato 29 milioni di italiani, mentre domenica sono stati 33 milioni. Ma Renzi (il “sì”) ha preso due milioni di voti in più, e anche al netto di una fantomatica quota Alfano-Verdini (NCD prese 1,2 milioni di voti nel 2014) siamo davanti a un dato oggettivamente enorme. Per capirci: se questi voti li avesse presi alle Politiche del 2013, oggi avremmo un saldissimo governo Bersani e non dovremmo preoccuparci della mucca nel corridoio. Ma allora i voti del Partito Democratico furono 8 milioni 600 mila, a fronte di un’affluenza superiore a 35 milioni. Il massimo in tempi recenti spetta a Veltroni nel 2008: poco più di 12 milioni di voti (su 39 milioni di votanti) e il 33,2% nella sconfitta alle Politiche contro Berlusconi.

Per questo motivo, all’apparire dei primi exit poll referendari scrivevo che se, con quell’affluenza impensabile, il “sì” avesse contenuto la sconfitta entro i 10 punti di scarto (i sondaggi clandestini delle ultime settimane lo davano al 45-46 per cento, ovviamente perché non consideravano la possibilità di un afflusso così massiccio alle urne), Renzi sarebbe stato il vero vincitore del referendum. Tanto da poter pensare a un reincarico per portare il paese al voto nella prossima primavera con concrete possibilità di vincere. Sì, anche con l’Italicum; d’altra parte, perso il referendum e presentate le dimissioni avrebbe disinnescato l’argomento di non essere stato eletto.

E anche oggi, con numeri molto diversi da quelli previsti, non si può pensare a un cammino da qui alle prossime Politiche senza Renzi e il Pd. A partire dalla nuova legge elettorale: ai grillini e alla Lega ora va bene anche l’Italicum con le eventuali modifiche che saranno imposte dalla Corte Costituzionale, mentre FI e la minoranza del Pd vorrebbero un po’ di tempo per varare una legge proporzionale e impedire che vinca il M5S. Con 400 parlamentari, il Partito Democratico sarà un fulcro di questa riforma e non mi pare che qualcuno abbia chiesto a Renzi di dimettersi anche dalla segreteria del partito.

P.S.: Caro Matteo, non sono contento delle tue dimissioni anche se ho votato “no”. Principalmente perché oggi festeggiano i Grillo, i Salvini, i Brunetta, insomma tutti quelli che non vorrei mai alla guida del nostro Paese. Ma in tutta onestà, questa storia che la sinistra fa le porcate e poi i suoi elettori se le devono ingoiare perché altrimenti vince la destra ha un po’ rotto i coglioni. Con immutata stima, eh.


Marco Travaglio spara c...ate (dagospia.com)
P.P.S.: In realtà, questo voto senza vincitori ha un altro perdente, uno cui è andata ancora peggio che a Renzi. Ed è il sistema dell’informazione italiana. Perché è vero che i principali quotidiani, senza avere le palle di fare un endorsement esplicito, hanno fatto una campagna senza quartiere per il “sì” e per il padrone. Ma vedere ieri notte Marco Travaglio che festeggiava e pontificava mi ha fatto salire l’ittero perché proprio lui non ha niente di che rallegrarsi: al confronto del suo giornale – che, agli esordi, valeva persino la pena leggere – in questa campagna referendaria Libero sembrava il Washington Post. L’ultimo orrore del Fatto Quotidiano è di appena un paio di giorni fa: un titolo sul genere “Chi diventa senatore con il sì” corredato da una foto con otto-dieci politici dei quali – giuro! – oggi come oggi potrebbe diventare senatore forse solo uno, l’ex sindaco di Genova Marta Vincenzi. Gli altri? Gente privata persino dei diritti politici come Totò Cuffaro, gente condannata e quindi incandidabile come Formigoni, presidenti di Regione (e non consiglieri) come De Luca… Una bufala inaccettabile, perché da un politico puoi anche comprendere - magari non accettare - che aggiusti la realtà, ma da un giornale no. Mai. Insomma, per un attimo ho pensato addirittura di votare Sì. Poi però mi sono svegliato.

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