NBA: Thunder, che Dio vi fulmini!!!


Abbraccio con passaggio di consegne incorporato tra Tim Duncan e Kevin Durant (nba.com)
Signore e signori, ecco a voi le finali di Conference (specie quella ad Ovest) che nessuno avrebbe voluto vedere. Soprattutto IlMaxFactor, che nelle ultime settimane ha dormito dodici ore a notte solo per poter affrontare con una sufficiente riserva di sonno una meravigliosa serie tra Golden State e San Antonio. E invece, cosa capita? Che quei bizzarri soggetti degli Oklahoma City Thunder, dopo aver fatto letteralmente schifo per tutta la stagione nonostante l’arrivo di un coach geniale come Billy Donovan (e non mi dite che hanno vinto 55 partite perché divento matto: li ho visti giocare almeno 5-6 volte in regular season e hanno una qualità di basket e di scelte semplicemente ridicola), hanno sfruttato l’evidente superiorità fisica e atletica per eliminare i “vecchietti terribili” degli Spurs, strappandomi letteralmente dalle mani il telecomando da impostare sul 202 per godermi sette fantastiche battaglie, magari litigando con qualche fanatico di San Antonio.

Russell Westbrook, oltre 27 punti di media a maggio
E sì, sono un po’ offeso – pronostico sbagliato a parte – perché, se è vero che il duello tra Westbrook (che, ribadisco, è tutto tranne che un playmaker e a me continua a non piacere neanche un po’) e Tony Parker era chiaramente squilibrato, pensavo che con qualche accorgimento difensivo e con l’accoppiamento Durant-Leonard, praticamente l’unico al mondo al quale KD non dovrebbe farne 40 a partita, gli Spurs sarebbero comunque venuti a capo dei Thunder che in questi anni sono sempre sembrati la classica squadra a cui manca il soldo per fare la lira. O il dollaro, in questo caso.

E invece, proprio Durant ha eguagliato nella decisiva gara-4 il suo massimo in carriera nei playoff con 41 punti, mentre Westbrook a maggio ha viaggiato oltre i 27 di media. Risultato? 4-2 Thunder e (probabilmente) fine di un’epoca, visto che Tim Duncan e Manu Ginobili potrebbero decidere di ritirarsi quest’estate e Tony Parker, da almeno un paio di stagioni alle prese con problemi fisici continui, dovrebbe avere un ruolo meno centrale negli Spurs dell’era di Leonard e (in misura minore per ragioni anagrafiche) Aldridge.

Steph Curry si "mangia" Damian Lillard di Portland
D’altra parte, per quanto detto sopra e per quanto visto durante la stagione mi rifiuto di credere che OKC possa battere Golden State. Non so nemmeno come stiano a scontri diretti (ricordo solo la tripla di Steph Curry da centrocampo per vincere alla Chesapeake Energy Arena 121-118 all’overtime), ma mi rifiuto e basta. E poi, voglio proprio vedere Westbrook che insegue il folletto col numero 30 mentre nell’altra metà campo fanno una bella staffetta sulle sue tracce Klay Thompson, Harrison Barnes e magari Shaun Livingston, e intanto Draymond Green (il “vero” miglior difensore della Nba) prende KD faccia a faccia nei momenti importanti... Dico di più: se Curry è in condizione, la serie finisce 4-0. Augh. 

Della finale della Eastern Conference, onestamente, mi frega poco o nulla. Sì, i Toronto Raptors (che per farsi i Miami Heat senza Bosh e Whiteside hanno avuto bisogno di gara-7) sono arrivati una sola vittoria dietro i Cleveland Cavs in stagione regolare; sì, i Toronto Raptors hanno vinto due dei tre scontri diretti; sì, i Toronto Raptors hanno centrato il risultato migliore della loro storia; sì, i Toronto Raptors sono molto atletici e forti fisicamente, certamente più dei Cavs; ma… no, i Toronto Raptors non batteranno mai e poi mai Cleveland a meno di una decimazione nazista.
LeBron James e Demar Derozan nella locandina di un match di regular season

E così, anche quest’anno si consumerà il solito scenario da post-season: a Ovest almeno tre-quattro squadre si scannano per arrivare in finale, con un dispendio di energie fisiche e nervose da Ironman, mentre a Est la squadra del “Fasullo” – come da anni ho affettuosamente soprannominato LeBron James – passeggia per tre turni e arriva a giocarsi il titolo bella fresca e riposata. Prima era Cleveland, poi Miami, infine di nuovo Cleveland. Che poi il titolo lo vinca, dipende da tanti fattori: un canestro a culo di Ray Allen sulla sirena di gara-6 aiuta, diciamo così. Ma non quest’anno. Sarà una finale più “vera” ed equilibrata rispetto a quella del 2015 con i Cavs senza Kyrie Irving e Kevin Love, ma i Warriors al completo sono la cosa più bella vista su un campo di basket dai tempi dei Sacramento Kings di White Chocolate. E in più vincono.

Steph a Steve Kerr: <<Bella fra'>>
P.S.: Ultimo flash sui premi individuali della stagione. Di rigore l’Mvp al numero 30, che è anche il primo nella storia ad aggiudicarsi il riconoscimento all’unanimità (Shaquille O’Neal sta ancora cercando il giurato che nel 2000 gli preferì Iverson, fossi in lui sarei già in Messico…), così come il “Coach of the Year” a Steve Kerr, che pure ha avuto un record vinte-perse (34-5) peggiore del suo assistente e neo allenatore dei Lakers, Luke Walton (39-4)… Infine, secondo pronostico il “Rookie of the Year” a Karl-Anthony Towns, anche se io continuo a preferire Kristaps Porzingis che nella votazione è arrivato terzo dietro Jahlil Okafor (tra parentesi, “passato” dai Lakers al Draft per prendere Dangelo Russell). A risentirci dopo le finali di Conference, a meno che Curry ne metta 60 in una partita. Possibile, peraltro.

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