Ritratto del sindaco di Hiroshima
«Io
sono il sindaco di Hiroshima». Era agosto quando, durante un incontro serale
con gli abitanti e i villeggianti di Marmora e Rodia (già questa una piccola
rivoluzione), Renato Accorinti metteva in chiaro quale “eredità” amministrativa
gli fosse toccata.
Eletto
da poco più di un mese dopo una clamorosa rimonta al ballottaggio che aveva
coronato una campagna elettorale straordinaria come mai se ne erano viste a
Messina (e questo mi sembra oggettivo, al di là della simpatia che ho per il
nuovo sindaco e per il suo movimento), Renato aveva già capito l’antifona: gli
toccava – e gli tocca – amministrare una città devastata dalla bomba atomica
del malgoverno, della burocrazia che soffoca, del disinteresse di un’intera
classe politica per la quale era stata solo terra di conquista e di saccheggi.
E questo va al di là delle responsabilità personali di chi l’ha amministrata –
che pure ci sono – per coinvolgere un intero sistema, quello della politica
come l’hanno intesa la prima, la seconda e questa che dovrebbe essere la terza
Repubblica.
Una
città in cui persino la Vara ,
la processione della Patrona, era in mano alla criminalità; una città ostaggio
delle ditte che gestiscono le discariche perché mai veramente indirizzata verso
la raccolta differenziata; una città solcata da migliaia di Tir al giorno
mandati in pieno centro da una prassi “allegra” nella concessione dei pass o
dalla decisione di un qualunque dipendente dei Franza che per evitare di
sovraccaricare il serpentone di Tremestieri si faceva padrone del nostro
destino. E potremmo citare altri cento, mille esempi; ma ci risparmiamo questa
botta di tristezza.
Al
di là del messaggio e del programma in sé, in campagna elettorale Renato ha
solleticato in particolare due sentimenti che il messinese aveva quasi dimenticato
di poter provare: la fiducia e la speranza. La fiducia che quella persona, una
volta sindaco, avrebbe pensato solo ed esclusivamente al bene della città e la
speranza che, con questo spirito, qualcosa potesse realmente e finalmente
cambiare. Entrambi sentimenti – secondo me – ben riposti; ma che già dopo un
paio di mesi appaiono diluiti e in parte disinnescati da un altro sentimento
così tipico del messinese da costituirne quasi un marchio di fabbrica: il
vittimismo.
Ammettiamolo:
noi non amiamo veramente la nostra città. Ci sta bene che sia paralizzata,
vessata e mortificata da decenni, perché questo ci fornisce l’alibi perfetto
per la nostra ignavia. Il “così fan tutti” ci consente di continuare a
fregarcene: a lasciare la macchina in doppia fila, a gettare la spazzatura
fuori dai cassonetti, a non pagare le tasse e lamentarci di non avere servizi,
a inveire contro i politici e fare la fila dietro la loro porta per chiedere un
favore, persino a bollare come teatrali, superficiali o qualunquisti i segnali
di discontinuità che iniziano ad arrivare.
Perché
se un sindaco rinuncia all’indennità per mantenere lo stipendio da professore
di scuola media facendoci risparmiare a occhio 100 mila euro l’anno, se sale
sulla Vara con la maglietta di Addiopizzo ma non caccia a calci chi la Vara l’ha comunque nel sangue
al di là dei “fattacci” degli ultimi anni, se va a Palermo per un incontro
istituzionale e pranza con pane e panelle e mezza birra anziché “scendere al De
Russie” a 500 euro a notte (per non parlare degli… extra) come faceva Buzzanca
a Roma, allora sta facendo scena. E’ tutto “chiacchiere e distintivo”, tutto
fumo e niente arrosto.
E
invece, l’arrosto c’è. O comincia ad esserci, perlomeno. Essere il sindaco di
Hiroshima significa anche aver bisogno di pochissimo per fare meno dei
predecessori: a me, personalmente, basterebbe vedere i Tir definitivamente
fuori dal centro, quell’obbrobrio dello svincolo di Giostra-Annunziata (d’altra
parte lo ha progettato Rodriquez, mica Renzo Piano…) che almeno funzioni in
entrambe le direzioni, i rifiuti che non traboccano più dai cassonetti. Poi più
verde, più spazi per bambini, più piste ciclabili e zone pedonali. Forse poco,
ma enormemente di più di quanto (indisturbati) hanno fatto per decenni i
politici “bravi”, quelli competenti, quelli con lauree e curricula roboanti.
E
a chi ora s’inalbera perché ci sono ancora le buche nelle strade e bofonchia
che “non è cambiato niente” mi permetto di dire: mutu, buddaci. E dài una mano, se vuoi bene a questa povera città.
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