sabato 17 febbraio 2018

NBA: ecco chi NON vincerà i premi stagionali


L’All Star Game di questo weekend allo Staples Center di Los Angeles (a proposito, pollice verso per la nuova formula che sostituisce il tradizionale Est contro Ovest con la scelta dei giocatori da parte dei capitani, come al campetto) mette in pausa una stagione che nelle attese sarebbe stata di transizione verso la nuova serie de Il principe di Bel-Air con LeBron James al posto di Will Smith, e invece ha già fornito materiale per scrivere un centinaio di libri.

L’ultima storia riguarda i Cavs che, in calo verticale e ormai convinti di avere completamente sbagliato lo scambio che ha portato Isiah Thomas e Jae Crowder a Cleveland al posto di Kyrie Irving, ma anche di non avere grandi chances in prospettiva playoff nonostante probabilmente la miglior stagione in carriera di un LeBron James a tratti onnipotente (26.5 punti, 8.1 rimbalzi e 8.9 assist con il 54% al tiro) ma che per la prima volta dall’anno da rookie ha un plus-minus negativo. Così si sono liberati non solo di Thomas e Crowder, ma anche di Dwyane Wade, Derrick Rose, Iman Shumpert e Channing Frye per mettere George Hill in cabina di regia e Jordan Clarkson e probabilmente Rodney Hood sul perimetro con LeBron e Kevin Love nel frontcourt (in alternativa Tristan Thompson al posto di un esterno con James da ala piccola). E’ l’ennesimo all in – cambio radicale per restare subito competitivi e giocatori più giovani di quelli andati via – della dirigenza dei Cavs nel tentativo di convincere il Re a non lasciare Cleveland nella prossima estate quando sarà free agent, ma aver rilevato dai Lakers il contratto di Clarkson (26 milioni nei prossimi due anni) ha paradossalmente aiutato L.A. a creare spazio sotto il salary cap per firmare sia LeBron sia un’altra superstar, forse Paul George.

E che dire di Blake Griffin, clamorosamente passato nel giro di sei mesi dal ruolo di pietra angolare
Blake Griffin in canotta Pistons (Sky Sport)
del futuro dei Los Angeles Clippers a pedina di scambio con Detroit per iniziare la ricostruzione proprio quando la rincorsa playoff dei losangelini, condizionati in avvio di stagione dai tanti infortuni, si stava concretizzando. Al fianco di Gallinari (che dalla partenza di Griffin sta giocando benissimo) sono arrivati la guardia Avery Bradley e l’ala Tobias Harris, mentre in Michigan coach Stan van Gundy spera che Griffin, pur con il suo contratto a salire fino a 40 milioni a stagione, sia la superstar in grado di rimettere in sesto un’annata iniziata bene ma ultimamente scivolata appena fuori dai playoff.

Altre squadre la cui risalita in classifica rischia di essere pesantemente penalizzata dagli infortuni sono innanzitutto i New Orleans Hornets (che hanno perso per la stagione i 25 punti e 13 rimbalzi di media di Demarcus Cousins) e gli Oklahoma City Thunder che in Andre Roberson, fermato dalla rottura del tendine rotuleo, avevano il miglior difensore della squadra. New Orleans è corsa ai ripari firmando lo spagnolo Nikola Mirotic (quasi 17 punti e oltre 6 rimbalzi di media a Chicago, ma anche una bella rissa con il compagno Bobby Portis che con un pugno gli ha fratturato un osso del collo), OKC ha comunque talento sufficiente per restare a galla mentre i Clippers, in risaluta, sono sfavoriti nella corsa all’ultimo posto nei playoff rispetto a Denver.

Isaiah Thomas in gialloviola (nbareligion.com)
Un breve, brevissimo paragrafo me lo fate dedicare ai miei Lakers? Allora, l’arrivo di Isaiah Thomas è dovuto a motivi salariali, inutile negarlo o alzare cortine fumogene: IT è in scadenza di contratto come Channing Frye e nell’estate del 2018 Magic Johnson e Rob Pelinka puntano a firmare due free agent di livello “top”, appunto LeBron James e Paul George o simili. A parole, però, visto l’infortunio di Lonzo Ball (che trarrebbe certamente grande giovamento dall’allenarsi fino a fine stagione accanto a un veterano come Thomas) e comunque lo status di All-Star del piccolo playmaker dall’Università di Washington, la franchigia aveva ammantato questo scambio con fiumi di parole nei confronti di Isaiah e l’intenzione di valutare il suo contributo ai fini di un’eventuale conferma. Bene, da quando è stato fatto lo scambio Cleveland non ha più perso e i Lakers non hanno più vinto. Decisione presa, direi.

Infine, il “lodo” Belinelli: l’azzurro, che stava giocando molto bene (12 punti di media dalla panchina) negli sgangherati Atlanta Hawks del dopo Millsap e Howard, aveva chiesto di essere ceduto e aveva – giustamente – la fila davanti alla porta: ma Atlanta non ha concluso lo scambio e Marco, subito dopo la trade deadline, ha rescisso il contratto per firmare con Philadelphia dove ha concrete possibilità di tornare a giocare i playoff. E di dare il suo contributo (17 punti all’esordio, 11 dei quali nella rimonta dell’ultimo quarto contro Miami) visto che è pur sempre un campione Nba.,,
Detto che non si sono verificate sorprese clamorose rispetto alle previsioni e che, dal decimo posto in giù, in nessuna delle due Conference si palesano squadre che potrebbero rimontare posizioni e centrare la post-season, vediamo a chi potrebbero andare i premi individuali.

Partiamo ovviamente dal premio di MVP, il miglior giocatore della stagione. Il candidato più accreditato è James Harden che a Houston sta viaggiando a 31.5 punti, 4.9 rimbalzi e 9 assist di media, ha realizzato la prima “tripla doppia” ai 60 punti della storia e sta trascinando i Rockets (insieme a Chris Paul e Clint Capela: una sola sconfitta in 21 partite quando giocano tutti e tre) al primo posto ad Ovest e ad essere la rivale più accreditata di Golden State per il titolo. Probabilmente vincerà lui, dopo il secondo posto della scorsa stagione dietro Russell Westbrook che l’arrivo di Paul George e Carmelo Anthony a OKC sembra aver reso ancora più forte (25.5 punti, 9.3 rimbalzi e 10.3 assist!). Chi non sarà l’MVP di quest’anno, ma a occhio ne dovrebbe vincere più di un paio in futuro è Giannis Antetokounmpo (27.6 punti, 10.4 rimbalzi, 4.7 assist e il 54% al tiro), anche se la stagione ancora un po’ altalenante di Milwaukee – che ha pure licenziato a sorpresa l’allenatore Jason Kidd – potrebbe pesare negativamente.
Ricordate? Tre candidati MVP giocavano insieme... (espn.com)

Il punto è che, per l’ossessione di cercare nuove superstar, l’ambiente della NBA sta sottovalutando la stagione di due che l’MVP l’hanno già vinto e che invece stanno giocando ai massimi livelli della loro carriera. Di LeBron James abbiamo già detto, anche se l’annata dispari dei Cavs sembra escludere una sua nomination; ma quello che sta facendo Steph Curry da quando è rientrato dall’infortunio è irreale, e nonostante qualche episodica battuta d’arresto i Golden State Warriors sono sembrati ancora più ingiocabili che nel recente passato. In tutta onestà, non vedo perché – solo perché ha già vinto il premio nel 2015 e nel 2016 – non dovrebbe essere lui il miglior giocatore della stagione. Sfiora i 27 di media con oltre 5 rimbalzi e 6.5 assist, tira con quasi il 50% dal campo (42% da tre) e il 92% ai liberi. Non basta?

C’è un vincitore annunciato anche per il premio di Rookie of the Year: Ben Simmons di Philadelphia ha fatto sensazione sin dal suo ingresso nella Lega grazie a istinti e visione di gioco assolutamente unici, tanto da giocare stabilmente da playmaker pur essendo, a rigore, un’ala di 2,08. Al momento è secondo nei punti (16.4) e primo nei rimbalzi (7.7) e negli assist (7.3) tra i giocatori al primo anno tirando il 53% dal campo. Il punto è che non segna mai, ma proprio mai, da tre punti (0/10 in stagione!), tira i liberi con il 57% e perde più palloni di qualunque altra matricola (3.7), ma anche che i Sixers stanno battagliando per entrare nei playoff pur con quella quantità di talento e con un All Star come Joel Embiid. L’impatto più forte dal punto di vista numerico lo ha avuto sin qui Donovan Mitchell di Utah (19.5 punti con due “quarantelli” e quattro “trentelli”, 3.3 rimbalzi, 3.4 assist), nei primi mesi aveva impressionato più di tutti Kyle Kuzma che poi è un po’ calato e risente del rendimento deludente dei Lakers (ad oggi 15.7 punti e 5.9 rimbalzi con il 36% da tre) mentre in seguito è cresciuto tantissimo Lauri Markkanen (15.3+7.7), ma se devo guardare alla completezza e versatilità del giocatore e alla sua importanza nelle rotazioni di una squadra che aspira il titolo il mio candidato è Jayson Tatum. L’ala di Boston è un talento meraviglioso che segna 13.6 punti – un po’ in calo – con il 43% da tre che ne fa il primo tra i rookie e cattura 5.1 rimbalzi, ma soprattutto si è inserito in una squadra ambiziosa che gli ha dovuto dare un ruolo diverso dalle aspettative per l’infortunio di Gordon Hayward.

Il canestro vincente di Manu contro i Dallas Mavericks
La corsa al premio di Sesto uomo dell’anno è un po’ la cartina di tornasole di come stia cambiando questo gioco: tra infortuni inevitabili in una stagione di 82 partite, roster zeppi di specialisti, scambi inattesi e rotazioni che mutano continuamente, i principali candidati hanno in alcuni casi giocato più partite in quintetto che in uscita dalla panchina. Parlo di Lou Williams dei Clippers (23.2 punti, 5.3 assist e 40 gare da sesto uomo su 54), Eric Gordon di Houston (18.5 con il 33% da tre, 24 gare in quintetto e 27 dalla panchina) e Tyreke Evans di Memphis (19.4 punti, 5 rimbalzi, 5 assist, 39% da tre, partente in 27 gare su 47). Ecco perché voglio simbolicamente assegnare questo riconoscimento al più grande sesto uomo dell’ultimo decennio, che a quarant’anni è ancora capace di incidere, di vincere le partite, di emozionare: Manu Ginobili, convinto da coach Gregg Popovich a non ritirarsi per poi  ripagarlo con 9.3 punti, 2.1 rimbalzi, 2.5 assist e l’85% ai liberi in 20’ di utilizzo, sempre dalla panchina. Ha già vinto il premio nel 2008, lo merita ancora dieci stagioni dopo.

Prima del Coach of the Year restano difensore dell’anno e giocatore più migliorato. Situazioni opposte: quest’ultimo riconoscimento sembra già appannaggio di Victor Oladipo che, tornato nell’Indiana dove si era fatto conoscere al college, sta trascinando gli inattesi Pacers ai playoff con una stagione da 24 punti, 5 rimbalzi e 4 assist abbondanti a partita. Ma dire lo stesso nome di tutti gli altri sarebbe poco IlMaxFactoriano, quindi per me sarà Nikola Jokic. “The Joker” (che, lo ricordiamo, insieme a Teodosic e a un altro paio di stelle non c’era agli Europei persi in finale dalla sua Serbia con la Slovenia) ha appena confezionato un’impresa unica: la “tripla doppia” già nel primo tempo. Viaggia a 17 punti, quasi 11 rimbalzi e 6 assist (un centro!) di media e già vi vedo che confrontate le statistiche e saltate sulla sedia: sono numeri praticamente identici a quelli dello scorso anno. Sì, ma guardate due cose: il numero di “triple doppie” è impensabile per un lungo, e soprattutto i Denver Nuggets l’anno scorso fallirono i playoff mentre ora, dopo essersi apparentemente indeboliti con il mercato, sono 32-26 (sesti a Ovest), probabilmente approderanno alla post-season e, soprattutto, hanno in Jokic il perno di questa sorprendente stagione.

L’infortunio di Kawhi Leonard ha invece aperto la corsa al titolo di Defensive Player of the Year: gli esperti si dividono tra il detentore Draymond Green, il suo compagno di squadra e insospettabile stoppatore Kevin Durant, il centro di Utah Rudy Gobert rientrato dall’infortunio, Paul George che anche a OKC continua ad essere una vipera sulle linee di passaggio. La mia moneta la punto invece su Joel Embiid dal momento che il centro camerunense (uno che potrebbe essere anche un legittimo candidato Mvp) ai quasi 24 punti a partita aggiunge 11 rimbalzi e quasi 2 stoppate, ma soprattutto ha dimostrato di poter tenere chiunque lontano dall’area pitturata dei Philadelphia 76ers.

Luke Walton e la famiglia Ball (nbareligion.com)
Infine, l’allenatore dell’anno. Troppo facile dire Mike D’Antoni che lo è stato nel 2017 e che in questa stagione sta facendo addirittura meglio, o il solito Steve Kerr alla guida della cosa più bella mai vista su un campo di basket, o Brad Stevens che ha portato Boston ai vertici della Eastern con il marchio della difesa e senza uno dei due fenomeni presi in estate, vale a dire Gordon Hayward. L’ascesa dei Toronto Raptors, attualmente primi a Est, ha portato in alto anche le quotazioni di coach Dwayne Casey, ma stavolta faccio una scelta di segno completamente diverso: il miglior allenatore della stagione è Luke Walton. Perché? Semplice: nessuno dei suoi colleghi deve avere a che fare con LaVar Ball. Il pittoresco papà di Lonzo (e di LaMelo, e di LiAngelo) sembra uno di quei genitori che vanno a scuola a picchiare il professore che ha messo un brutto voto al figlio, e che coach Walton debba sopportare le sue continue interferenze – soprattutto mentre il pargolo, seconda scelta assoluta, sta svernando a L.A. tra cifre modeste e infortuni continui – ne fa un candidato non solo a questo premio, ma anche al Nobel per la pace.

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