NBA: ecco chi NON vincerà i premi stagionali
L’All Star Game di
questo weekend allo Staples Center di Los Angeles (a proposito, pollice verso
per la nuova formula che sostituisce il tradizionale Est contro Ovest con la
scelta dei giocatori da parte dei capitani, come al campetto) mette in pausa
una stagione che nelle attese sarebbe stata di transizione verso la nuova serie
de Il principe di Bel-Air con LeBron
James al posto di Will Smith, e invece ha già fornito materiale per scrivere un
centinaio di libri.
L’ultima storia
riguarda i Cavs che, in calo verticale e ormai convinti di avere completamente
sbagliato lo scambio che ha portato Isiah Thomas e Jae Crowder a Cleveland al
posto di Kyrie Irving, ma anche di non avere grandi chances in prospettiva playoff nonostante probabilmente la miglior
stagione in carriera di un LeBron James a tratti onnipotente (26.5 punti, 8.1
rimbalzi e 8.9 assist con il 54% al tiro) ma che per la prima volta dall’anno
da rookie ha un plus-minus negativo.
Così si sono liberati non solo di Thomas e Crowder, ma anche di Dwyane Wade,
Derrick Rose, Iman Shumpert e Channing Frye per mettere George Hill in cabina
di regia e Jordan Clarkson e probabilmente Rodney Hood sul perimetro con LeBron
e Kevin Love nel frontcourt (in
alternativa Tristan Thompson al posto di un esterno con James da ala piccola).
E’ l’ennesimo all in – cambio
radicale per restare subito competitivi e giocatori più giovani di quelli
andati via – della dirigenza dei Cavs nel tentativo di convincere il Re a non
lasciare Cleveland nella prossima estate quando sarà free agent, ma aver rilevato dai Lakers il contratto di Clarkson
(26 milioni nei prossimi due anni) ha paradossalmente aiutato L.A. a creare
spazio sotto il salary cap per
firmare sia LeBron sia un’altra superstar, forse Paul George.
E che dire di Blake
Griffin, clamorosamente passato nel giro di sei mesi dal ruolo di pietra
angolare
del futuro dei Los Angeles Clippers a pedina di scambio con Detroit
per iniziare la ricostruzione proprio quando la rincorsa playoff dei
losangelini, condizionati in avvio di stagione dai tanti infortuni, si stava
concretizzando. Al fianco di Gallinari (che dalla partenza di Griffin sta
giocando benissimo) sono arrivati la guardia Avery Bradley e l’ala Tobias
Harris, mentre in Michigan coach Stan van Gundy spera che Griffin, pur con il
suo contratto a salire fino a 40 milioni a stagione, sia la superstar in grado
di rimettere in sesto un’annata iniziata bene ma ultimamente scivolata appena
fuori dai playoff.
Blake Griffin in canotta Pistons (Sky Sport) |
Altre squadre la cui
risalita in classifica rischia di essere pesantemente penalizzata dagli
infortuni sono innanzitutto i New Orleans Hornets (che hanno perso per la
stagione i 25 punti e 13 rimbalzi di media di Demarcus Cousins) e gli Oklahoma
City Thunder che in Andre Roberson, fermato dalla rottura del tendine rotuleo,
avevano il miglior difensore della squadra. New Orleans è corsa ai ripari
firmando lo spagnolo Nikola Mirotic (quasi 17 punti e oltre 6 rimbalzi di media
a Chicago, ma anche una bella rissa con il compagno Bobby Portis che con un
pugno gli ha fratturato un osso del collo), OKC ha comunque talento sufficiente
per restare a galla mentre i Clippers, in risaluta, sono sfavoriti nella corsa
all’ultimo posto nei playoff rispetto a Denver.
Isaiah Thomas in gialloviola (nbareligion.com) |
Un breve, brevissimo
paragrafo me lo fate dedicare ai miei Lakers? Allora, l’arrivo di Isaiah Thomas
è dovuto a motivi salariali, inutile negarlo o alzare cortine fumogene: IT è in
scadenza di contratto come Channing Frye e nell’estate del 2018 Magic Johnson e
Rob Pelinka puntano a firmare due free
agent di livello “top”, appunto LeBron James e Paul George o simili. A
parole, però, visto l’infortunio di Lonzo Ball (che trarrebbe certamente grande
giovamento dall’allenarsi fino a fine stagione accanto a un veterano come
Thomas) e comunque lo status di All-Star
del piccolo playmaker dall’Università di Washington, la franchigia aveva
ammantato questo scambio con fiumi di parole nei confronti di Isaiah e
l’intenzione di valutare il suo contributo ai fini di un’eventuale conferma.
Bene, da quando è stato fatto lo scambio Cleveland non ha più perso e i Lakers
non hanno più vinto. Decisione presa, direi.
Infine, il “lodo”
Belinelli: l’azzurro, che stava giocando molto bene (12 punti di media dalla
panchina) negli sgangherati Atlanta Hawks del dopo Millsap e Howard, aveva
chiesto di essere ceduto e aveva – giustamente – la fila davanti alla porta: ma
Atlanta non ha concluso lo scambio e Marco, subito dopo la trade deadline, ha rescisso il contratto per firmare con
Philadelphia dove ha concrete possibilità di tornare a giocare i playoff. E di
dare il suo contributo (17 punti all’esordio, 11 dei quali nella rimonta
dell’ultimo quarto contro Miami) visto che è pur sempre un campione Nba.,,
Detto che non si sono
verificate sorprese clamorose rispetto alle previsioni e che, dal decimo posto
in giù, in nessuna delle due Conference si palesano squadre che potrebbero
rimontare posizioni e centrare la post-season, vediamo a chi potrebbero andare
i premi individuali.
Partiamo ovviamente dal
premio di MVP, il miglior giocatore della stagione. Il candidato più
accreditato è James Harden che a Houston sta viaggiando a 31.5
punti, 4.9 rimbalzi e 9 assist di media, ha realizzato la prima “tripla doppia”
ai 60 punti della storia e sta trascinando i Rockets (insieme a Chris Paul e
Clint Capela: una sola sconfitta in 21 partite quando giocano tutti e tre) al primo
posto ad Ovest e ad essere la rivale più accreditata di Golden State per il
titolo. Probabilmente vincerà lui, dopo il secondo posto della scorsa stagione
dietro Russell Westbrook che
l’arrivo di Paul George e Carmelo Anthony a OKC sembra aver reso ancora più
forte (25.5 punti, 9.3 rimbalzi e 10.3 assist!). Chi non sarà l’MVP di
quest’anno, ma a occhio ne dovrebbe vincere più di un paio in futuro è Giannis Antetokounmpo (27.6 punti, 10.4
rimbalzi, 4.7 assist e il 54% al tiro), anche se la stagione ancora un po’
altalenante di Milwaukee – che ha pure licenziato a sorpresa l’allenatore Jason
Kidd – potrebbe pesare negativamente.
Ricordate? Tre candidati MVP giocavano insieme... (espn.com) |
Il punto è che, per
l’ossessione di cercare nuove superstar, l’ambiente della NBA sta
sottovalutando la stagione di due che l’MVP l’hanno già vinto e che invece
stanno giocando ai massimi livelli della loro carriera. Di LeBron James abbiamo
già detto, anche se l’annata dispari dei Cavs sembra escludere una sua nomination; ma quello che sta facendo Steph Curry da quando è rientrato
dall’infortunio è irreale, e nonostante qualche episodica battuta d’arresto i
Golden State Warriors sono sembrati ancora più ingiocabili che nel recente
passato. In tutta onestà, non vedo perché – solo perché ha già vinto il premio
nel 2015 e nel 2016 – non dovrebbe essere lui il miglior giocatore della
stagione. Sfiora i 27 di media con oltre 5 rimbalzi e 6.5 assist, tira con
quasi il 50% dal campo (42% da tre) e il 92% ai liberi. Non basta?
C’è un vincitore
annunciato anche per il premio di Rookie of the Year: Ben Simmons di Philadelphia ha fatto sensazione sin dal suo
ingresso nella Lega grazie a istinti e visione di gioco assolutamente unici,
tanto da giocare stabilmente da playmaker pur essendo, a rigore, un’ala di 2,08.
Al momento è secondo nei punti (16.4) e primo nei rimbalzi (7.7) e negli assist
(7.3) tra i giocatori al primo anno tirando il 53% dal campo. Il punto è che
non segna mai, ma proprio mai, da tre punti (0/10 in stagione!), tira i liberi
con il 57% e perde più palloni di qualunque altra matricola (3.7), ma anche che
i Sixers stanno battagliando per entrare nei playoff pur con quella quantità di
talento e con un All Star come Joel Embiid. L’impatto più forte dal punto di
vista numerico lo ha avuto sin qui Donovan
Mitchell di Utah (19.5 punti con due “quarantelli” e quattro “trentelli”,
3.3 rimbalzi, 3.4 assist), nei primi mesi aveva impressionato più di tutti Kyle Kuzma che poi è un po’ calato e
risente del rendimento deludente dei Lakers (ad oggi 15.7 punti e 5.9 rimbalzi
con il 36% da tre) mentre in seguito è cresciuto tantissimo Lauri Markkanen (15.3+7.7), ma se devo
guardare alla completezza e versatilità del giocatore e alla sua importanza
nelle rotazioni di una squadra che aspira il titolo il mio candidato è Jayson Tatum. L’ala di Boston è un
talento meraviglioso che segna 13.6 punti – un po’ in calo – con il 43% da tre
che ne fa il primo tra i rookie e cattura 5.1 rimbalzi, ma soprattutto si è
inserito in una squadra ambiziosa che gli ha dovuto dare un ruolo diverso dalle
aspettative per l’infortunio di Gordon Hayward.
Il canestro vincente di Manu contro i Dallas Mavericks |
La corsa al premio di
Sesto uomo dell’anno è un po’ la cartina di tornasole di come stia cambiando
questo gioco: tra infortuni inevitabili in una stagione di 82 partite, roster
zeppi di specialisti, scambi inattesi e rotazioni che mutano continuamente, i
principali candidati hanno in alcuni casi giocato più partite in quintetto che
in uscita dalla panchina. Parlo di Lou
Williams dei Clippers (23.2 punti, 5.3 assist e 40 gare da sesto uomo su
54), Eric Gordon di Houston (18.5
con il 33% da tre, 24 gare in quintetto e 27 dalla panchina) e Tyreke Evans di Memphis (19.4 punti, 5
rimbalzi, 5 assist, 39% da tre, partente in 27 gare su 47). Ecco perché voglio
simbolicamente assegnare questo riconoscimento al più grande sesto uomo dell’ultimo
decennio, che a quarant’anni è ancora capace di incidere, di vincere le
partite, di emozionare: Manu Ginobili,
convinto da coach Gregg Popovich a non ritirarsi per poi ripagarlo con 9.3 punti, 2.1 rimbalzi, 2.5
assist e l’85% ai liberi in 20’ di utilizzo, sempre dalla panchina. Ha già
vinto il premio nel 2008, lo merita ancora dieci stagioni dopo.
Prima del Coach of the
Year restano difensore dell’anno e giocatore più migliorato. Situazioni
opposte: quest’ultimo riconoscimento sembra già appannaggio di Victor Oladipo che, tornato
nell’Indiana dove si era fatto conoscere al college, sta trascinando gli
inattesi Pacers ai playoff con una stagione da 24 punti, 5 rimbalzi e 4 assist
abbondanti a partita. Ma dire lo stesso nome di tutti gli altri sarebbe poco
IlMaxFactoriano, quindi per me sarà Nikola
Jokic. “The Joker” (che, lo ricordiamo, insieme a Teodosic e a un altro
paio di stelle non c’era agli Europei persi in finale dalla sua Serbia con la
Slovenia) ha appena confezionato un’impresa unica: la “tripla doppia” già nel
primo tempo. Viaggia a 17 punti, quasi 11 rimbalzi e 6 assist (un centro!) di
media e già vi vedo che confrontate le statistiche e saltate sulla sedia: sono
numeri praticamente identici a quelli dello scorso anno. Sì, ma guardate due
cose: il numero di “triple doppie” è impensabile per un lungo, e soprattutto i
Denver Nuggets l’anno scorso fallirono i playoff mentre ora, dopo essersi
apparentemente indeboliti con il mercato, sono 32-26 (sesti a Ovest),
probabilmente approderanno alla post-season e, soprattutto, hanno in Jokic il
perno di questa sorprendente stagione.
L’infortunio di Kawhi
Leonard ha invece aperto la corsa al titolo di Defensive Player of the Year:
gli esperti si dividono tra il detentore Draymond
Green, il suo compagno di squadra e insospettabile stoppatore Kevin Durant, il centro di Utah Rudy Gobert rientrato dall’infortunio, Paul George che anche a OKC continua ad
essere una vipera sulle linee di passaggio. La mia moneta la punto invece su Joel Embiid dal momento che il centro
camerunense (uno che potrebbe essere anche un legittimo candidato Mvp) ai quasi
24 punti a partita aggiunge 11 rimbalzi e quasi 2 stoppate, ma soprattutto ha
dimostrato di poter tenere chiunque lontano dall’area pitturata dei
Philadelphia 76ers.
Luke Walton e la famiglia Ball (nbareligion.com) |
Infine, l’allenatore
dell’anno. Troppo facile dire Mike
D’Antoni che lo è stato nel 2017 e che in questa stagione sta facendo
addirittura meglio, o il solito Steve
Kerr alla guida della cosa più bella mai vista su un campo di basket, o Brad Stevens che ha portato Boston ai
vertici della Eastern con il marchio della difesa e senza uno dei due fenomeni
presi in estate, vale a dire Gordon Hayward. L’ascesa dei Toronto Raptors,
attualmente primi a Est, ha portato in alto anche le quotazioni di coach Dwayne Casey, ma stavolta faccio una
scelta di segno completamente diverso: il miglior allenatore della stagione è Luke Walton. Perché? Semplice: nessuno
dei suoi colleghi deve avere a che fare con LaVar Ball. Il pittoresco papà di
Lonzo (e di LaMelo, e di LiAngelo) sembra uno di quei genitori che vanno a
scuola a picchiare il professore che ha messo un brutto voto al figlio, e che
coach Walton debba sopportare le sue continue interferenze – soprattutto mentre
il pargolo, seconda scelta assoluta, sta svernando a L.A. tra cifre modeste e
infortuni continui – ne fa un candidato non solo a questo premio, ma anche al
Nobel per la pace.
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