Brunori Sas, un concerto contro la paura

La Brunori Sas durante il soundcheck a Catania (Ph. Pina Castanotto)
«Mi sono scialato, grazie ragazzi». Sono più o meno le ultime parole che ti aspetteresti da Dario Brunori alla fine della data più improbabile di un tour trionfale, quella del “Ma” di Catania dove è approdato qualche giorno fa lo show A casa tutto bene, reduce da una serie incredibile di “sold out” con le punte di 4 mila presenze al Teatro Atlantico di Roma, 3 mila all’Alcatraz di Milano e due pienoni consecutivi a Bologna.

Sì, perché in questo – peraltro bellissimo – locale catanese la sala da concerti è certamente più tarata sulla vecchia dimensione indie del Nostro che non sullo status raggiunto con il nuovo disco e in particolare con il singolo La verità: forse trecento posti (gradoni compresi) dove si accalca, in condizioni al limite del pericolo per la pubblica incolumità, un numero almeno doppio di brunoriani totalmente esaltati. Per non parlare delle centinaia di persone in fila all’esterno del locale, in attesa di eventuali voucher non riscattati per riuscire a entrare. Insomma, un delirio. Nel quale però la Brunori Sas finisce per trovarsi straordinariamente a suo agio: un ritorno al passato per la band cosentina, che dal circuito (più che dal movimento) underground proviene e da lì si è definitivamente lanciata verso il successo mainstream.

Ancora il soundcheck al Ma di Catania (Ph. Pina Castanotto)
Sta di fatto che, lungi dallo snobbare quella che di fatto è l’ultima data del tour invernale (suonerà il 24 a Genova e il 25 a Parma, poi al Primo Maggio e quindi in estate: già annunciate le date del 30 giugno al Carroponte di Milano e del 4 luglio all’Ippodromo delle Capannelle di Roma, il 5 agosto dovrebbe tornare dopo tre anni al Teatro antico di Tindari per “Indiegeno Fest”), Dario Brunori appare iperprofessionale sin dal soundcheck, nel quale riusciamo a infiltrarci: d’altra parte, vista la cura messa nella produzione degli ultimi due dischi (opera di Taketo Gohura), l’attenzione alla resa live è d’obbligo anche se l’impasto complessivo, come è normale in concerto, tenderà poi a penalizzare un po’ i suoni antichi o dissonanti che punteggiano l’album.

Quando alle 22,30 (dopo una ragionevole mezz’ora di ritardo... certo, se al confronto le sardine non avessero a disposizione un trilocale) Dario Brunori sale sul palco è carico come una molla, tanto da regalare una versione di La verità difficilmente ascoltata, per intensità e partecipazione, in tutto il tour. Il pubblico recepisce e canta a squarciagola, così come farà più o meno per gli altri cinque brani che replicano l’ordine del primo lato – si può chiamare ancora così? – di A casa tutto bene: da L’uomo nero alla splendida Canzone contro la paura fino a Lamezia Milano, Colpo di pistola e La vita liquida alla quale però non giova la sottrazione del ritmo battente nel finale.

Il concerto al Ma (Ph. Giacomo Scandurra)
Da showman consumato (del resto, ha all’attivo anche una fortunata tournée teatrale dal titolo Brunori Srl-Una società a responsabilità limitata), Brunori arringa la platea con una serie di battute ironiche e autoironiche, come quando – davanti a una distesa di smartphone accesi per registrare video – sollecita il pubblico ad utilizzare quel «nuovo supporto tecnologico» costituito dagli occhi, o quando ricostruisce “l’illuminazione” di scrivere canzoni d’amore: «Non ci aveva pensato nessuno», celia. Dal punto di vista comunicativo Brunori è veramente una star, a me ricorda Francesco Guccini (e chi, non avendo mai visto Guccini dal vivo, pensa che sia una palla dovrebbe informarsi: non ho mai riso tanto a un concerto).

E quando apre la seconda parte del concerto con due brani storici, Come stai e Le quattro volte, Dario fa finta di prendersela perché il pubblico canta più volentieri le canzoni vecchie. (Ma quanto gli piace questa cosa, invece?) Seguono quella piccola delizia che è Tra milioni di stelle, una Pornoromanzo trasformata da un arrangiamento che, se ho sentito bene, modifica anche qualche accordo, Lei, lui, Firenze, Una domenica notte e uno dei suoi capolavori, Arrivederci tristezza alla fine della quale chiosa: «Questa canzone parla di rinascere, io invece ogni volta che la canto muoio» facendo riferimento allo sforzo vocale che richiede. Ma tranquilli: è arrivato il momento di salvare il mondo, «e lo faremo tutti insieme vestiti da toreri!». Prima ancora dell’inattesa citazione da parte di Matteo Renzi, infatti, Il costume da torero è diventata un po’ l’inno della Brunori Sas, un piccolo miracolo di positività e coinvolgimento con quel coro di bambini (dal vivo affidato al pubblico) che canta «La realtà è una merda, ma non finisce qua». Seguono Sabato bestiale e una Don Abbondio un po’ in ombra dal punto di vista vocale e tormentata da un black-out con tanto di allarme antincendio che Dario esorcizza con un ferro di cavallo celestino sulla cui provenienza avremmo tante domande. Altro pezzo storico totalmente riarrangiato, con esiti che magari non trovano tutti d’accordo, è Rosa che conclude il concerto.

Dario Brunori al piano nel finale (Ph. Giacomo Scandurra)
O meglio: lo concluderebbe, perché Brunori si dice troppo stanco per lasciare il palco e attendere la richiesta di bis, e così resta seduto al pianoforte e organizza l’ennesima pantomima facendo abbassare le luci e chiedendo al pubblico di richiamarlo. Il premio per gli spettatori è una sequenza conclusiva favolosa: Kurt Cobain era, a mio parere, il suo brano di maggior spessore prima dell’ultimo album, Guardia ’82 è semplicemente un capolavoro perfetto per l’esecuzione live e Secondo me la conclusione più adatta dal punto di vista tanto musicale quanto concettuale.


Una volta usciti dalla scatola di sardine, la sensazione è di aver assistito a un concerto superbo, ma soprattutto a un concerto che mai più capiterà di vedere in un posto così piccolo. L’ho scritto recensendo il disco a gennaio: Brunori è il primo cantautore “vero” della nostra generazione, ed è destinato a scrivere altre pagine estremamente significative della canzone d’autore italiana. Sempre vestito da torero, ovviamente.

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