Riforma costituzionale: ecco cosa cambia davvero

Il ministro Maria Elena Boschi

E’ vero: leggere, capire e spiegare (soprattutto capire) una legge costituzionale di 40 articoli scritta dalla Boschi è un lavoro duro, ma qualcuno deve pur farlo. E così, occhiali inforcati e Amaro Montenegro nel bicchiere, ecco a voi IlMaxFactor per il sociale.
Chiaramente, sapete benissimo che non sono un costituzionalista (non sono nemmeno laureato in Giurisprudenza), ma un giornalista che negli ultimi vent’anni si è trovato migliaia di volte a spulciare leggi, regolamenti, normative, circolari, ricorsi e sentenze cercando tra le righe le conseguenze che ciascuno di quegli atti avrebbe avuto. E anche stavolta, sarà questa la chiave di lettura che cercherò di dare ai fedelissimi de IlMaxFactor: niente termini troppo tecnici – sarete clementi se troverete qualche inesattezza, vero? – e nessuna indicazione per il Sì o per il No, ma una disamina asettica e obiettiva (almeno spero) dei “pro” e dei “contro” della riforma della Costituzione che affronterà il vaglio referendario il prossimo 4 dicembre.

La Costituzione è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 27 dicembre 1947 
Riforma che riguarda la Parte II della Costituzione (Titolo I, II e III), quella che stabilisce l’ordinamento della Repubblica. A partire dall’art. 55, che nella nuova formulazione (art. 1 della riforma) sancisce la fine del cosiddetto “bicameralismo perfetto”: non più due Camere con gli stessi poteri ma una sola, quella dei deputati, titolare del rapporto di fiducia con il Governo e un Senato al quale l’art. 2 assegna 100 membri nominati tra i consiglieri regionali (74, in proporzione alla popolazione delle rispettive regioni) e i sindaci (21), più 5 membri di nomina presidenziale che non saranno più a vita, ma con durata settennale mentre i membri ordinari restano in carica finché non finisce il rispettivo mandato elettivo. Al momento – come ha calcolato di recente La Stampa – il Pd avrebbe una solidissima maggioranza di 55 componenti, anche senza Ncd (5) e altre formazioni di centrosinistra (3); 14 li avrebbe la Lega, 9 Forza Italia, appena 6 il Movimento 5 Stelle. Restano in carica i senatori a vita (4) e i presidenti della Repubblica emeriti, nel nostro caso solo Giorgio Napolitano. Il presidente della Camera diventa la seconda carica dello Stato al posto del presidente del Senato. L’art. 69 prevede ora che solo i membri della Camera abbiano diritto all’indennità, ma spetterà al regolamento interno stabilire la concessione di diaria, gettoni e rimborsi spese. E se si considera che la “macchina” amministrativa e burocratica del Senato resta in piedi, appare evidente che il risparmio ampiamente pubblicizzato dal Governo sarà limitato. Condivisibile, invece, l’introduzione dell’obbligo di partecipare alle sedute dell’Assemblea e delle Commissioni da parte dei membri di entrambi i rami del Parlamento (art. 64), che sembra prefigurare anche un regime sanzionatorio da stabilire per regolamento.

I compiti del Senato riguardano le materie dell’autonomia, del raccordo tra lo Stato e le Regioni, dell’attuazione delle politiche comunitarie, e – insieme alla Camera dei deputati – le leggi di revisione costituzionale; i suoi componenti non rappresentano più la Nazione, status riservato ora solo ai deputati, ma continuano ad esercitare la propria carica senza vincolo di mandato (art. 67 Cost. come modificato dall’art. 8 della Boschi). Il “nuovo” art. 70, forse il fulcro dell’intera riforma, riserva inoltre al Senato la facoltà, e non l’obbligatorietà, di esaminare i disegni di legge approvati dalla Camera tranne che per le leggi attuative nelle materie di competenza delle Regioni, anche se le eventuali modifiche possono non essere accolte dalla Camera. Un controsenso, se si pensa che molte materie – come vedremo più avanti – sono state sottratte alla competenza della Regioni ed è stata eliminata la cosiddetta “legislazione concorrente”, e che il Senato dovrebbe essere proprio il collegamento tra lo Stato e le autonomie. Nuova è invece la prerogativa del Senato di richiedere l’esame di una legge da parte della Camera, che avrà sei mesi di tempo per provvedere.

Fa discutere anche l’art. 7, che riforma l’art. 66 della Costituzione. Alla formulazione precedente («Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità») viene aggiunto un secondo comma che recita: «Il Senato della Repubblica prende atto della cessazione dalla carica elettiva regionale o locale e della conseguente decadenza da senatore». I nuovi senatori, dunque, godranno dell’immunità parlamentare così come i deputati, ma sono innanzitutto sindaci e consiglieri regionali, dunque si tratta a tutti gli effetti di una estensione dell’immunità a soggetti che prima non ne godevano. D’altro canto, sarebbe stato piuttosto singolare prevedere una disparità di trattamento tra i componenti delle due Camere come faceva una precedente stesura della legge.

Una scheda del referendum
Alle prerogative di iniziativa legislativa del Senato abbiamo già accennato. L’art. 11 della riforma, che modifica l’art. 71 della Carta, eleva poi a 150 mila il numero minimo di firme necessarie per le leggi di iniziativa popolare e rimanda all’art. 15 che sostituisce di peso il “vecchio” art. 75 sul referendum stabilendo, tra l’altro, una nuova tipologia di quorum: se la proposta referendaria (sempre valida purché corredata da almeno 500 mila firme) è sottoscritta da 800 mila elettori, l’esito del referendum sarà valido non a patto che il voti il 50% più uno degli aventi diritto ma la maggioranza assoluta dei votanti alle ultime Politiche. In un quadro di complessiva concentrazione dell’iniziativa legislativa in capo alla Camera dei deputati e, più ancora, al Governo (meno competenze alle Regioni, fine della legislazione concorrente, limiti alla facoltà di proporre leggi del Senato, numero di firme triplicato per le leggi di iniziativa popolare, “voto a data certa” al quale accennerò più avanti) questo parrebbe un utile contrappeso, ma la sua incidenza pare destinata ad essere minima. Detto che varrà l’affluenza delle prossime Politiche, infatti, quella rilevata per esempio alle consultazioni del 2013 (peraltro la più bassa di sempre) è stata di poco superiore al 75%; il quorum equivarrebbe dunque al 37-38% degli aventi diritto, ma questa è una percentuale che dal 1995 ad oggi è stata raggiunta solo due volte: nel 2011 (55% per il “traino” dell’abolizione del legittimo impedimento) e nel 1999 quando il quesito sull’abolizione della quota proporzionale nelle elezioni politiche sfiorò la metà più uno fermandosi al 49,6%. Lontanissimo il risultato delle altre consultazioni: 31,2% nel 2016 (trivelle), 23,8% nel 2009 (legge elettorale), 25,5% nel 2005 (procreazione assistita). Considerate le difficoltà che i comitati incontrano già nel reperire 500 mila firme, si può affermare che questa riforma in particolare sia destinata a rivelarsi inefficace.

Si diceva della concentrazione dell’iniziativa legislativa in capo al Governo, più ancora che alla Camera, per garantire la governabilità: un’esigenza particolarmente avvertita non solo da parte dell’Esecutivo, ma anche dei cittadini. I “nuovi” articoli 64 secondo comma, 72 e 77 della Costituzione sono stati però ritenuti la spia di una riforma in senso centralista e presidenzialista della nostra Carta. Innanzitutto, «i regolamenti delle Camere garantiscono i diritti delle minoranze parlamentari. Il regolamento della Camera dei deputati disciplina lo statuto delle opposizioni»: da una parte c’è, finalmente, il riconoscimento ufficiale del ruolo dell’opposizione parlamentare in Costituzione con la previsione di norme di garanzie della minoranza (la stesura attuale prevede nel Titolo I e nelle disposizioni finali solo la tutela delle minoranze linguistiche), dall’altra per il fatto che lo statuto delle opposizioni è contenuto nel regolamento e che quest’ultimo è approvato dalla maggioranza assoluta della Camera, si creerà una situazione nella quale la coalizione maggioritaria (alla quale l’Italicum assegna il 54% dei seggi anche se Renzi ha appena dichiarato che, con la disponibilità alla modifica della legge elettorale, cade qualunque argomento di “combinato disposto”) sarà in grado di decidere da sola quali siano le prerogative e quali i limiti dell’opposizione, ad esempio regolamentando l’ostruzionismo parlamentare.

Se si aggiunge che l’art. 72 consente ora al Governo di ottenere che la Camera ponga all’ordine del giorno entro cinque giorni un disegno di legge «indicato come essenziale per l’attuazione del programma», purché non riguardi il bilancio oppure amnistia e indulto, e che lo esiti entro settanta (il cosiddetto “voto a data certa”), e che l’art. 77 consente al Governo di ricorrere alla decretazione d’urgenza (tranne che in materia costituzionale, elettorale, di bilancio o per la reiterazione di decreti non convertiti in legge) e che per la conversione si riunisca la sola Camera dei deputati, anche se sciolta (!) e anche per le materie per le quali la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere, si evidenzia una caratteristica importante della riforma: nel sistema di contrappesi tra Governo e Parlamento, l’asse è decisamente spostato in direzione della governabilità alla quale viene anche in parte sacrificato il ruolo delle Camere. Sul rischio che questo sistema dia corpo a tentazioni presidenzialiste, plebiscitarie o addirittura autoritarie si è soffermato a lungo il fronte del “no”.


Soppressione in vista per il CNEL
Sulla seconda parte della riforma, quella che riguarda il Titolo II, III, V e VI della Costituzione (abolizione delle Province, rapporti tra Stato e Regioni, elezione della Corte costituzionale, soppressione del Cnel) IlMaxFactor tornerà nei prossimi giorni. Anche a questo proposito, vi anticipo che ci sono diversi argomenti di grande interesse.

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