Riforma costituzionale: ecco cosa cambia davvero-2
Matteo Renzi e Bianca Berlinguer in un recente talk show |
Mentre
il premier Matteo Renzi continua la sua applauditissima tournée nei talk show televisivi senza aver ancora trovato qualcuno
che si ricordi di discutere – ed eventualmente contestare – il merito della
riforma costituzionale, IlMaxFactor non ha dormito e, per ringraziare i suoi
lettori delle tantissime visualizzazioni registrate in appena 24 ore, vi
propina subito subito la seconda parte di questo speciale su cosa cambierebbe
con la conferma della legge nel referendum del 4 dicembre.
Il Capo II della Legge
costituzionale 12 aprile 2016, la cosiddetta “riforma Boschi”, contiene le
modifiche al Titolo II della Parte II della Carta, in particolare gli articoli
83, 85, 86, 87 e 88 che normano l’elezione e le prerogative del presidente
della Repubblica. Scompaiono innanzitutto (art. 21 della riforma)
dall’elettorato attivo per la nomina del Capo dello Stato i delegati delle
Regioni visto che, a rigore, l’intero Senato è nominato in rappresentanza delle
autonomie. Cambia anche il quorum: resta la maggioranza dei due terzi per i
primi tre scrutini ma dal quarto non basta più la maggioranza assoluta,
sostituita dai tre quinti. Quest’ultima soglia si mantiene anche dal settimo
scrutinio in poi, riferita però ai votanti e non agli aventi diritto. Con queste modifiche l’elezione del
presidente della Repubblica sarà probabilmente più lunga e complessa perché
rende necessaria una convergenza più ampia, ma per converso consentirà di
“sganciare” il Capo dello Stato dalla maggioranza parlamentare. Il
requisito attuale della maggioranza assoluta, necessaria dal quarto scrutinio,
sarà infatti agevolmente alla portata della coalizione di Governo con
l’Italicum (che le assegna 340 seggi su 630 alla Camera) e con la nuova
strutturazione del Senato, di fatto su base proporzionale rispetto alla
popolazione delle regioni e alla composizione dei rispettivi Consigli
regionali. Per capirci, senza la riforma
se il Pd vincesse le elezioni politiche del 2018 e sommasse i 55 senatori che
gli spettano (più i 5 a vita), arriverebbe a 400 voti su 730 scollinando
ampiamente il quorum necessario. Con lo sbarramento dei tre quinti, invece,
serviranno poco meno di 440 voti che dal settimo scrutinio diminuiranno solo in
funzione del numero dei votanti rispetto agli aventi diritto. Un paio di
esempi: nel 2006 Giorgio Napolitano (che ottenne il 54% dei voti) non sarebbe
stato eletto mentre avrebbe avuto comunque via libera nel 2013 (73% al sesto
scrutinio), così come Sergio Mattarella (65%). Nel passato meno recente, non
sarebbero stati eletti Einaudi, Segni e Leone (che ottenne un risicato 51% alla
ventitreesima votazione).
Gli altri articoli
riformati riguardano le prerogative del capo dello Stato, compresa quella di
sciogliere le Camere, riferite ormai alla sola Camera dei deputati (eccetto la ratifica
dei trattati di appartenenza all’Unione europea, «previa l’autorizzazione di
entrambe le Camere». La seduta comune delle due Camere per l’elezione del Capo
dello Stato (art. 22) è presieduta non più dal presidente del Senato, ma da
quello della Camera a meno che quest’ultimo (che diventa la seconda carica
dello Stato) stia sostituendo il presidente della Repubblica dimissionario.
Franco Bassanini, autore della riforma della P.A. (panorama.it) |
Il Titolo III della Parte
II della Costituzione riguarda la fiducia al Governo (art. 94), che con l’art.
25 della riforma verrà accordata e revocata solo dalla Camera e non più anche
dal Senato, così come sarà la sola Camera ad autorizzare che il presidente del
Consiglio e i ministri possano essere perseguiti per i reati commessi durante
l’esercizio delle loro funzioni (art. 96 Cost.). Interessante l’art. 27 della
riforma, che nell’organizzazione dei
pubblici uffici introduce, accanto ai criteri del buon andamento e
dell’imparzialità già presenti nell’art. 97 della Carta, quello della
trasparenza. Un concetto già ampiamente presente nella legislazione, a
partire dalla legge 241/1990 (la cosiddetta “Bassanini”) sul procedimento
amministrativo fino alla Legge 15/2005; ma dargli rango costituzionale equivale
a introdurlo come un obbligo non più eludibile al quale la Pubblica Amministrazione
dovrà conformarsi (certo, nelle forme stabilite da leggi e regolamenti). La
soppressione dell’art. 99 comporta la scomparsa del CNEL, il fantomatico
Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro: un ulteriore passo in direzione
della concentrazione dell’iniziativa legislativa in mano alla Camera e al
Governo, ma del quale nessuno si lamenta perché il CNEL ci è costato circa 20
milioni all’anno (6 milioni ancora oggi, per gli stipendi dei 65 dipendenti che
potranno essere trasferiti solo all’esito del referendum) e ha prodotto appena
14 leggi dalla sua istituzione.
Il Titolo V della
Costituzione è la parte della nostra Carta già oggetto delle più profonde
revisioni, iniziate negli anni Settanta e culminate nella Legge costituzionale
n. 3 del 2001 che lo riforma in senso federalista con il recepimento, tra
l’altro, dell’istituzione delle Città Metropolitane. Una tendenza che verrebbe
ora limitata, in particolare per quanto riguarda i poteri delle Regioni, mentre
l’abolizione delle Province stabilita
dall’art. 29 (che modifica l’art. 114 Cost.) lascerebbe una serie di
questioni aperte, in particolare quella relativa alle Comunità montane, ma rischia di lasciare un vero e proprio
disastro in caso di vittoria del “no” il prossimo 4 dicembre, con la
coesistenza forzata di Province e Città Metropolitane.
Detto che la soppressione
delle Province, operata con l’eliminazione di qualsiasi riferimento a questo
Ente locale in tutti gli articoli della Costituzione nei quali era elencato
insieme ai Comuni e alle Regioni, è stata motivata con esigenze di risparmio di
fondi pubblici (la cosiddetta spending
review), l’introduzione delle Città Metropolitane ha quasi subito finito
per creare un doppione del momento che ben 13 delle 14 che sono state create (Roma
Capitale, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Bari, Catania, Firenze, Bologna,
Genova, Venezia, Messina e Reggio Calabria) coincidono con il territorio
provinciale; l’unica a fare eccezione è Cagliari, pensata davvero in termini di
Area metropolitana e che infatti raggruppa appena 14 Comuni. Ciascuno di questi
Enti ha un sindaco (di solito il primo cittadino del capoluogo), un Consiglio
metropolitano formato con elezioni di secondo livello e una Conferenza
metropolitana della quale fanno parte tutti i sindaci dei Comuni. Dove non è stata prevista l’istituzione di
una Città Metropolitana le competenze delle Province passano alle Regioni, ma
in questi 13-14 casi ci si troverà con due Enti sovrapposti in termini di governance, competenze, persino
organici. Una soluzione potrebbe essere non convocare le elezioni
provinciali, ma solo nelle more di una nuova legge costituzionale: l’unica che
può sopprimere, appunto, un soggetto o un ente di rilievo costituzionale.
Restano in vigore le Comunità montane: un controsenso |
Gli articoli successivi
oggetto di riforma, quelli dal 116 al 120, toccano una materia estremamente
sensibile e segnano forse – anche se pochi commentatori si sono soffermati sulla
questione – lo stacco più deciso tra la Costituzione attuale e la sua nuova
formulazione. In particolare, l’art. 30 della Boschi limita la possibilità
delle Regioni a statuto ordinario di legiferare sulle materie del lavoro, della
formazione, della giustizia di pace, del commercio con l’estero e del governo
del territorio «purché la Regione sia in condizione di equilibrio tra le
entrate e le spese del proprio bilancio». Vale
a dire che, se la Regione non è in pareggio di bilancio, non ha la potestà di
legiferare su queste materie. L’art. 117 amplia, come già previsto nella
Parte relativa all’ordinamento della Repubblica, la legislazione esclusiva
dello Stato nei confronti delle Regioni: alle materie già previste vengono
aggiunte (lettere a-z) le norme sul procedimento
amministrativo e sulla disciplina giuridica del lavoro, sull’ordinamento
scolastico, sull’istruzione universitaria e sulla ricerca, sulla previdenza
sociale, su Comuni e Città Metropolitane, sul commercio con l’estero, su beni
culturali, sport e turismo, ed ex novo su
«ordinamento delle professioni e della comunicazione»; governo del territorio e
protezione civile; energia; infrastrutture e reti di trasporto. Con la fine
della legislazione concorrente, alle Regioni spettano le materie non
espressamente assegnate alla competenza esclusiva dello Stato. È fatta salva la
facoltà dello Stato di delegare alle Regioni l’esercizio di tale potestà nelle
materie di competenza legislativa esclusiva, ma resta la “rivoluzione” che
potremmo definire centralista nel rapporto con le Regioni stesse.
In linea con quanto
stabilito dal “nuovo” art. 32, l’art. 118 modificato dispone che «Le funzioni
amministrative sono esercitate in modo da assicurare la semplificazione e la
trasparenza dell’azione amministrativa, secondo criteri di efficienza e di responsabilità
degli amministratori». La trasparenza
diventa quindi un onere costituzionale da garantire per migliorare l’apparato
della Pubblica Amministrazione. Accanto a questo requisito, l’art. 120 ne
stabilisce un altro: «Le risorse derivanti dagli enti locali vengono usate per
le funzioni pubbliche degli stessi sulla base di indicatori di riferimento di
costo e di fabbisogno che promuovono condizioni di efficienza». Ma non basta:
lo Stato ha anche il potere sostitutivo, introdotto dall’art. 34 che modifica l’art.
120 Cost., rispetto alle Regioni in caso di inadempimenti o pericolo grave «e
stabilisce i casi di esclusione dei titolari di organi di governo regionali e
locali dall’esercizio delle rispettive funzioni quando è stato accertato lo
stato di grave dissesto finanziario dell’ente». Tale funzione è legata, ma non
vincolata, all’acquisizione di un parere motivato da parte del Senato. Gli
ultimi due articoli di questa sezione stabiliscono il limite agli emolumenti
degli amministratori regionali in ragione di quello dei sindaci (art. 35) e la
soppressione della commissione parlamentare per le questioni regionali (art.
36).
Il Palazzo della Corte Costituzionale a Roma
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L’ultimo aspetto della
Carta ad essere riformato è la Corte costituzionale, oggetto dell’articolo 135:
in particolare, l’età per l’accesso è abbassata da 40 anni (requisito per l’elezione
al “vecchio” Senato) ai 25 necessari per l’elettorato passivo alla Camera;
inoltre, i cinque giudici di nomina
parlamentare non vengono più eletti in seduta comune, ma 3 dalla Camera dei
deputati e 2 dal Senato. La ratio
è di assicurare la presenza di giudici costituzionali espressione delle
autonomie, anche se appare più come un tentativo di compensare il Senato per la
forte perdita di ruolo e di competenze. Per effetto di questa riforma, in fase
di prima applicazione, alla cessazione dalla carica i giudici costituzionali
nominati (secondo l’ordinamento oggi vigente) dal Parlamento in seduta comune
vengono sostituiti alternativamente dalla Camera e dal Senato.
Vista la natura
esplicativa, quasi didascalica di questa “guida” alla riforma costituzionale vi
risparmio qualsiasi valutazione sulla riforma. Come direbbe Ellery Queen, avete
a vostra disposizione gli elementi per valutare se la riforma della Costituzione
sia da approvare, perché comunque introduce una serie di novità nella direzione
della semplificazione, del risparmio, della governabilità e della trasparenza,
o da respingere perché insufficiente, centralista e tendente a una contrazione
delle prerogative democratiche. Solo una preghiera: non votate Sì o No sol
perché Renzi vi piace o, al contrario, vi sta sul culo. E se avete dubbi,
chiedete a IlMaxFactor...
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