SOSTIENE PEREIRA: No Roger no party, noi federeriani orfani della bellezza. E il mito di Alì. Quando lo sport è rivoluzione
di Antonio Pereira
Vi domanderete, ma non ci parli di Cateno? No, sul Tago spira una brezza atlantica che ha portato via dalla mia mente, per una volta, il guitto di Fiumedinisi, la giurista in salsa peloritana Dafne, le fobie semipatologiche legate a una recrudescenza del Covid, e tutte le pochezze messinesi. Per di più le luci rosse che adornano di notte il Ponte 25 de Abril inducono a ben altre vibrazioni e riflessioni, accompagnate da pasteis de Belem.
Non so come, o forse sì, essendo sospeso da sei mesi il tennis professionistico, a un certo punto una piccola sfera di ossigeno ha fatto irruzione tra i miei neuroni: ma Roger che sta facendo? mi sono chiesto. Dove è. Che fa. Trentanove anni fra una settimana, il velato annuncio di un possibile non rientro, anche se contratti lo legano a Tokyo 2021, non lascia trapelare nulla. E mi sono sentito orfano. Assalito dal timore di un lutto imminente, al quale ho cercato di prepararmi fissando le gesta di una carriera leggendaria nel granito di una memoria che ancora regge.
Orfano della Bellezza: che è idea e trasposizione dell'idea, estetica e cinetica, fluidità, eleganza, dolcezza imperiosa, potenza. Quella potenza che non è mai violenza, iattanza, ma sublimazione del gesto semplice per taluni eletti, impossibile per altri.
Insomma, come ci ha detto in tempi già sospetti David Foster Wallace, divino fanciullo della letteratura mondiale scomparso troppo presto causa invincibili tormenti interiori, il migliore prodotto mentale USA degli ultimi 60 anni, Roger Federer è Mozart e i Metallica. La prosa e la poesia, il tratto folle di Ligabue e la schematicità dell'Uomo vitruviano.
Insomma, c'è un vuoto in me, e quel che è peggio è che non riesco a intravvedere un surrogato. È un po' come quando abbandonò l'automobilismo Niki Lauda, il basket Michael Jordan, la box Muhammad Alì. Personalità immense che travalicano lo sport, che assurgono al ruolo di alfieri e apristrada sociali. Rivoluzionari.
Non tutti sanno, ad esempio, che di fatto la fine della guerra in Vietnam la si deve a Mohammad Alì. Campione del mondo dei pesi massimi, orgoglio di una nazione che viveva il sogno kennedyano e l'avanzata sul campo dei diritti civili di Martin Luther King e Malcom X, Alì rispose picche allo Zio Sam e rinunciò ad arruolarsi con rotta Saigon.
Gli tolsero il titolo di campione del mondo, la licenza, lo accusarono di tradimento, non lo fecero combattere per più di tre anni, lo braccarono, rischiò il carcere. Al quale scampò solo grazie a una sentenza della Corte costituzionale (cinque voti a quattro) con la quale si affermava - sintetizzo all'estremo - che se si consentiva ai Testimoni di Geova di non combattere in guerra perché se feriti non avrebbero potuto ricevere una trasfusione di sangue, bisognava allora consentirlo ai musulmani che rinunciavano alla guerra come strumento di attacco a popoli che non avevano lanciato offesa.
Una sentenza che costrinse l'amministrazione statunitense a organizzare la ritirata, perché a quel punto l'obiezione di coscienza non avrebbe consentito a Esercito, Aviazione e Marina di metter su una brigata che fosse uno, anche alla luce dei moti di piazza. È stato necessario attendere mezzo secolo perché qualche atto venisse desecretato (i voti della Corte costituzionale e la motivazione nel dettaglio) e si potesse conoscere per esteso la storia, meravigliosamente ricostruita da Federico Buffa per Sky.
Alì non c'è più, Federer è sul viale del tramonto, la contemporaneità ci consegna intolleranze, mediocrità, sovranismi, povertà inattese. E così non ci resta che attingere al pozzo senza fondo della Storia, talvolta limaccioso talora limpido, acqua da passare comunque al setaccio dell'intelligenza, che è fitta rete che separa il vero dall'apparenza, la verità - che è studio e applicazione - dalla mistificazione o parzialità.
Ecco la consolazione, che a questo punto incalza come la brezza sul Tago: la consapevolezza della Bellezza di chi sa regalare Bellezza, Giustizia - che è la più sublime tra le forme della Bellezza perché spesso inafferrabile - anelito all'infinito. Malgrado le sconfitte di Roger siano più atroci di ogni grandezza di ciascuna vittoria e quelle di Alì ancor più gravose nel corpo e nella mente.
Perché c'è una bellezza e una grandezza anche nelle sconfitte, come insegnava Pasolini, purché in giro non ci siano bari. E se mai dovessero esserci, tranquilli, corrono verso il dissolvimento. Fagocitati dal fiele che essi stessi producono.
Non so come, o forse sì, essendo sospeso da sei mesi il tennis professionistico, a un certo punto una piccola sfera di ossigeno ha fatto irruzione tra i miei neuroni: ma Roger che sta facendo? mi sono chiesto. Dove è. Che fa. Trentanove anni fra una settimana, il velato annuncio di un possibile non rientro, anche se contratti lo legano a Tokyo 2021, non lascia trapelare nulla. E mi sono sentito orfano. Assalito dal timore di un lutto imminente, al quale ho cercato di prepararmi fissando le gesta di una carriera leggendaria nel granito di una memoria che ancora regge.
Orfano della Bellezza: che è idea e trasposizione dell'idea, estetica e cinetica, fluidità, eleganza, dolcezza imperiosa, potenza. Quella potenza che non è mai violenza, iattanza, ma sublimazione del gesto semplice per taluni eletti, impossibile per altri.
Insomma, come ci ha detto in tempi già sospetti David Foster Wallace, divino fanciullo della letteratura mondiale scomparso troppo presto causa invincibili tormenti interiori, il migliore prodotto mentale USA degli ultimi 60 anni, Roger Federer è Mozart e i Metallica. La prosa e la poesia, il tratto folle di Ligabue e la schematicità dell'Uomo vitruviano.
Insomma, c'è un vuoto in me, e quel che è peggio è che non riesco a intravvedere un surrogato. È un po' come quando abbandonò l'automobilismo Niki Lauda, il basket Michael Jordan, la box Muhammad Alì. Personalità immense che travalicano lo sport, che assurgono al ruolo di alfieri e apristrada sociali. Rivoluzionari.
Non tutti sanno, ad esempio, che di fatto la fine della guerra in Vietnam la si deve a Mohammad Alì. Campione del mondo dei pesi massimi, orgoglio di una nazione che viveva il sogno kennedyano e l'avanzata sul campo dei diritti civili di Martin Luther King e Malcom X, Alì rispose picche allo Zio Sam e rinunciò ad arruolarsi con rotta Saigon.
Gli tolsero il titolo di campione del mondo, la licenza, lo accusarono di tradimento, non lo fecero combattere per più di tre anni, lo braccarono, rischiò il carcere. Al quale scampò solo grazie a una sentenza della Corte costituzionale (cinque voti a quattro) con la quale si affermava - sintetizzo all'estremo - che se si consentiva ai Testimoni di Geova di non combattere in guerra perché se feriti non avrebbero potuto ricevere una trasfusione di sangue, bisognava allora consentirlo ai musulmani che rinunciavano alla guerra come strumento di attacco a popoli che non avevano lanciato offesa.
Una sentenza che costrinse l'amministrazione statunitense a organizzare la ritirata, perché a quel punto l'obiezione di coscienza non avrebbe consentito a Esercito, Aviazione e Marina di metter su una brigata che fosse uno, anche alla luce dei moti di piazza. È stato necessario attendere mezzo secolo perché qualche atto venisse desecretato (i voti della Corte costituzionale e la motivazione nel dettaglio) e si potesse conoscere per esteso la storia, meravigliosamente ricostruita da Federico Buffa per Sky.
Alì non c'è più, Federer è sul viale del tramonto, la contemporaneità ci consegna intolleranze, mediocrità, sovranismi, povertà inattese. E così non ci resta che attingere al pozzo senza fondo della Storia, talvolta limaccioso talora limpido, acqua da passare comunque al setaccio dell'intelligenza, che è fitta rete che separa il vero dall'apparenza, la verità - che è studio e applicazione - dalla mistificazione o parzialità.
Ecco la consolazione, che a questo punto incalza come la brezza sul Tago: la consapevolezza della Bellezza di chi sa regalare Bellezza, Giustizia - che è la più sublime tra le forme della Bellezza perché spesso inafferrabile - anelito all'infinito. Malgrado le sconfitte di Roger siano più atroci di ogni grandezza di ciascuna vittoria e quelle di Alì ancor più gravose nel corpo e nella mente.
Perché c'è una bellezza e una grandezza anche nelle sconfitte, come insegnava Pasolini, purché in giro non ci siano bari. E se mai dovessero esserci, tranquilli, corrono verso il dissolvimento. Fagocitati dal fiele che essi stessi producono.
P.S.: Sostiene di chiamarsi Antonio Pereira, di essere un discendente del giornalista del Lisboa protagonista del romanzo di Tabucchi. Sostiene di avermi conosciuto in un giorno d’estate. «Una magnifica giornata d’estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava». Solo che io non sono mai stato a Lisbona, quindi immagino che menta. E’ un uomo di età ormai avanzata, che ha problemi di cuore e la pressione alta. Un ex giornalista di cronaca nera al quale è stata affidata la pagina culturale del giornale. Ora, essendo piuttosto anziano e poco avvezzo all’uso dei social (né gli interessa), Antonio Pereira non ha un blog e mi ha chiesto di ospitare periodicamente le sue riflessioni.
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