Nba, ora tocca cambiare soprannome a LeBron

Le lacrime di LeBron James
Le Fasullò c’est moi. Come Madame Bovary. Preliminarmente: il soprannome che avevo coniato per LeBron James cade, e – come qualche amico sa già – era stato deciso prima di gara-7: troppa sostanza, da parte di The King, nella rimonta di Cleveland dall’1-3 con il doppio quarantello consecutivo che non si verificava in finale dai tempi di Shaq. Non che il Fasullo fosse un personaggio inventato, tutt’altro: resto dell’idea che nella prima metà di queste Nba Finals il numero 23 avesse mostrato ancora una volta tutti i suoi limiti, quelli che – resto convinto – lo collocano certamente, per il momento, un gradino più sotto rispetto ai grandissimi.

Per “grandissimi” intendo i Jordan, i Magic, i Bird, i Jabbar ma anche gli O’Neal, appunto (non cito Bryant perché lì smetto di essere obiettivo). Senza voler scomodare i Chamberlain, i Russell, gli West e così via. Il che non significa che LeBron non sia un grande campione. In realtà, neanche l’epiteto che oggi cessa la sua parabola pseudo-giornalistica significa che non sia un grande campione. Ha dimostrato di esserlo, per carità: ha realizzato un’impresa che nessuno, dopo gara-4 (soprattutto prima della squalifica di Draymond Green), avrebbe mai pronosticato. Compresi quelli che ora si riempiono la bocca dei suoi heroics nelle ultime tre gare della serie, e che mi ricordano – al solito – quell’altro amico che tende a fare i pronostici quando il risultato è già definitivo, così non sbaglia mai.

Che LeBron James da ieri notte sia entrato nella leggenda è probabile, ma mi interessa pochino. Ho sbagliato, e non ammetterlo mi catapulterebbe di diritto nel novero di quei Soloni che pensano di capirne di basket più di qualunque altro ma che non riconoscono, per dire, un Ginobili neanche dopo averlo visto giocare un anno. Però ho una o due cose da dire al riguardo, perché anche oggi, anche di fronte a una simile dimostrazione di forza, è giusto fare un percorso alternativo a quello del carro del vincitore e ricordare che non è proprio tutt’oro quel che luccica. Quindi mi dispiace, tifosi di The Chosen One: una volta cosparso il capo di cenere, IlMaxFactor rialza la testa. E si fa cadere la cenere addosso, maledizione.

La "singolar tenzone" tra LeBron e Draymond Green in gara-4
Intanto, nessuno mi toglie dalla testa (cenere o non cenere) che senza la squalifica di Draymond Green la serie non sarebbe andata oltre gara-5. E sapete, se avete avuto la bontà di leggermi finora, cosa penso di quella squalifica: un pedaggio, un tributo pagato allo status di superstar che a LeBron è stato concesso sin dal suo ingresso nella Lega. (Ancora si attende che gli chiamino la prima infrazione di passi, per capirci.) Perché se un giocatore commette fallo davanti agli occhi dell’arbitro, poi decide di provare i battistrada delle sue nuove Nike sul corpaccione dell’avversario e quello (d’istinto?volontariamente?) gli allunga una manata negli zebedei, il suddetto arbitro – quello i cui occhi si trovano esattamente davanti alla scena – dovrebbe comminare all’istante un doppio tecnico e chiuderla lì. Invece no: nessuna decisione in tempo reale e giorni dopo, persino dopo l’ultimo allenamento di rifinitura pre gara-5, la squalifica dell’altro. Scientifica, visto che bastava un flagrant 1  per appiedare un comunque colpevole e incosciente Green mentre, se fosse stato davvero un fallaccio volontario e per fare male, sarebbe ricaduto piuttosto nella casistica del flagrant 2 (come, se la memoria non m’inganna ma ho dormito poco ultimamente, quello su Steven Adams nella serie contro OKC).

Che l’arbitraggio abbia “protetto” LeBron e Cleveland anche in gara-6, con i sei falli (almeno la metà dei quali davvero inesistenti; e multa di 25 mila dollari pure me se hai coraggio, Adam Silver!) fischiati a Steph Curry, è tanto vero quanto probabilmente irrilevante. Nel senso che non ha cambiato le sorti della serie. Ma sul 3-1, con gara-5 in casa e l’organico al completo, non ho troppi dubbi che i Golden State Warriors sarebbero riusciti a portare a casa l’anello con le ultime energie rimaste.

Il Barba se la ride con l'MVP
E sì, perché al netto degli infortuni (Bogut fuori, Curry onestamente a mezzo servizio anche se, sportivamente, non ne ha fatto un alibi; ma lo scorso anno era stata Cleveland a pagare dazio in questo senso), è evidente che l’enorme squilibrio di forze in campo tra Est e Ovest abbia favorito i Cavs. Basti pensare che Golden State ha giocato quattro partite in più nei playoff perché un conto è trovarsi contro al primo turno Reggie Jackson, un altro doversela vedere con il Barba Harden. Cleveland è arrivata in finale perdendo solo due volte a Toronto, sul parquet dell’unica squadra (mezza) “vera” espressa da una scadente Eastern Conference. E confermo: gli Oklahoma City Thunder e probabilmente gli stessi San Antonio Spurs, se nello stesso tabellone, avrebbero spazzato via questi Cavs.

Ma non è solo questo: anche in stagione regolare, se Cleveland una volta vinta la Division e avuta la certezza della testa di serie numero 1 (Toronto è arrivata tutto sommato vicina, ma non ha mai realmente insidiato la squadra di Tyronn Lue) ha potuto rifiatare, sull’altra costa i Warriors hanno dovuto giocare contro squadre nettamente più forti e inseguire obiettivi continuamente spostati in avanti, fino al record assoluto di vittorie che oggi appare come un’amarissima vittoria di Pirro. E sono arrivati spompati, sulle gambe, privi di energie all’atto finale come era già accaduto a San Antonio nel 2013. Anche perché reduci dalla faticosissima, specie mentalmente, rimonta da 1-3 con OKC.

I due coach campioni NBA all'esordio: Steve Kerr e Tyronn Lue
Detto questo, onore a LeBron e ai suoi sodali, dalla superstar di complemento Kyrie Irving (decisivo in gara-5 e gara-7) a un Kevin Love più solido e meno appariscente del previsto, da Tristan Thompson che ha dominato a rimbalzo d’attacco fino a coach Tyronn Lue che ha pedissequamente applicato un vecchio ma sempre valido sistema difensivo: triplico, quadruplico e quintuplico la superstar avversaria, raddoppio l’altro “Splash Brother” e prego che gli altri non mi ammazzino. E’ andata bene, mentre il coach dell’anno Steve Kerr si è via via incartato in quintetti atipici e scelte azzardate (ma si può cambiare al primo secondo dell’azione per trovarsi regolarmente il legnoso Ezeli o il minuscolo Curry contro LeBron?).


Quello che non ho ancora scritto è che è stata una bellissima finale, che ad Ovest ci sono stati dei bellissimi playoff (riabilitando una regular season mediocre) e che l’anno prossimo si annuncia un’altra grande stagione. Con Cleveland che punterà a instaurare una dinastia, Golden State che dovrà capire cosa fare di questo esperimento riuscito a metà (erano campioni in carica, in fondo) e soprattutto dei free agent come Harrison Barnes, calato paurosamente quando contava. Ma anche dell’assistant coach Luke Walton, che ha avuto un record migliore di Kerr quando questi era ai box e che guiderà i miei Los Angeles Lakers. E chissà che, con una buona presa alla numero 2 del Draft (Ben Simmons o Brandon Ingram, al limite Buddy Hield a meno che quel genio di Mitch Kupchak s’inventi un altro disastro) e qualche giocatore di alto livello in scadenza, magari non proprio Kevin Durant ma uno tra Hassan Whiteside, Demar Derozan o Mike Conley, non si possa tornare a far sognare Hollywood. Noi nel frattempo ci rivediamo (risentiamo, rileggiamo) per il Preolimpico dell’Italia. 

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