mercoledì 27 gennaio 2016

Come Steph Curry cambierà il basket. E... come fermarlo (spoiler alert!)

«Nella scorsa stagione lo avete votato Mvp con 24 punti di media a partita, come fate a non rivotarlo
Steph Curry con Andre Iguodala, Mvp delle Finali 2015 (AP)
quest’anno che ne sta facendo 30?». Il dubbio sollevato dal suo compagno di squadra Harrison Barnes, in tutta onestà, non ci tocca: Steph Curry, playmaker prodigio dei Golden State Warriors a caccia del record assoluto di vittorie nella Nba (72 con sole 10 sconfitte dei Chicago Bulls 1995/96), è un degnissimo candidato… unico al premio di miglior giocatore della Lega per il secondo anno consecutivo ma è anche, in un certo senso, la terza via del basket moderno.
Un giocatore dal talento illimitato al quale importa relativamente sia attaccare (nel senso di costruire giochi, visto che canestri e assist non li lesina comunque) che difendere (anche qui, al netto degli anticipi rapaci sulle linee di passaggio), che se ne impipa della selezione di tiro perché più è difficile e con più costanza lo mette e che ha fatto dell’etica lavorativa qualcosa di diverso rispetto agli esempi che conosciamo,  per dire, in Michael Jordan e Kobe Bryant: lì a trascinare il campione già affermato in palestra era una fame di vittorie insaziabile, per Steph invece si tratta “semplicemente” di portare un gesto tecnico alla perfezione e alla precisione assoluta.

Il resto arriva da sé, verrebbe da dire, anche se questi Warriors messi insieme da coach Steve Kerr  e dal geniale gm Bob Myers, non a caso Executive of the Year in carica (lo ricordate? E’ quel premio al miglior dirigente che, secondo gli addetti ai lavori, negli anni Novanta andava «intitolato a Jerry West in modo da poterlo dare a qualcun altro»), sono un sapiente mix di tecnica e aggressività, di talento offensivo e di fondamentali difensivi di squadra e individuali, giocano a un ritmo che nessuno può tenere e sciorinano un basket di una bellezza, specie quando è assistito dalle percentuali, assolutamente abbagliante. In più, oggi come oggi hanno anche maturato la consapevolezza di essere pressoché imbattibili: dopo aver perso due partite su tre nella settimana precedente, nell’ultima sono andati 4-0 vincendo con 30 punti di scarto in casa delle rivali più accreditate a Est, vale a dire Cleveland Cavaliers e Chicago Bulls, e da ultimo nello scontro al vertice della Western Conference contro i San Antonio Spurs davanti ai «twenty thousand maniacs» della Oracle Arena. Al momento sono attestati a 41 vinte e 4 perse, i conti potete farli da voi.

Piuttosto, l’unico dubbio sul numero 30 (come la sua media punti attuale, per l’esattezza 30,3 a partita con 6,5 assist e 5,4 rimbalzi) è come nessuno degli scout Nba si sia reso conto non tanto del suo enorme potenziale, quanto delle capacità già messe bene in mostra nei tre anni all’Università di Davidson:  un college non di prima fascia ma comunque di Division I, dove il piccolo Wardell Stephen Jr. (“Sr.” è papà Dell, tiratore favoloso che tra gli anni Ottanta e Novanta impazzò soprattutto a Charlotte) segnò qualcosa come 2.635 punti a oltre 25 di media, addirittura 28,6 nella terza e ultima stagione nella quale fu nominato All American (primo quintetto di tutta la Ncaa). Le percentuali? Eccole: 53% da due, 41% da tre, 88% ai liberi. Eppure, il suo 1,91 “americano” (ovvero misurato con le scarpe ai piedi anche se via, nemmeno così…) e l’idea che fosse un “senza ruolo”, una guardia tiratrice nel corpo di un playmaker, sconsigliarono a molte squadre di puntare su di lui. Finì così nella Baia con la chiamata numero 7: davanti a lui furono scelti non solo grandi giocatori come Blake Griffin e James Harden, ma anche i più “rivedibili” Hasheem Thabeet con la 2, Tyreke Evans con la 4, Ricky Rubio con la 5 e Johnny Flynn con la 6 (questi ultimi due peraltro dalla stessa squadra, i Minnesota Timberwolves).

E le perplessità sono rimaste anche dopo le prime stagioni, nonostante le cifre notevoli e i miglioramenti che Golden State ha evidenziato anche nella gestione Mark Jackson. Solo l’anno scorso, con la convocazione all’All Star Game e il titolo di Mvp, la Nba si è definitivamente arresa a Steph. Il quale, per non sembrare sazio, ha ulteriormente alzato l’asticella: veleggia con il 51% al tiro (quasi il 46% da tre) e il 91% ai liberi, ma soprattutto ha messo stabilmente nel repertorio il tiro da centrocampo, che prima provava in riscaldamento scommettendo con un inserviente dei Warriors e che ora invece, con quella faccia un po’ così e l’espressione un po’ così di uno che non potrebbe mai sbagliarlo, manda a bersaglio anche in partita.
Un "logo shot" di Stephen Curry


Ma tutto questo è, per certi versi, ordinaria amministrazione: la verità – siete fortunati, ve la diciamo prima – è che Steph appartiene al ristretto novero dei giocatori che hanno cambiato il basket, e lo farà. Fino ad oggi, per quella che è la mia conoscenza, ce ne sono stati appena quattro-cinque: Wilt Chamberlain che giocava uno sport tutto suo tanto da metterne 100 in una partita, Kareem Abdul-Jabbar che fece addirittura cambiare le regole, con il divieto di schiacciata al quale rispose inventando lo sky hook, Magic Johnson che ispirò, con il suo stile uptempo e  spettacolare, lo showtime dei Lakers anni Ottanta, e ovviamente Michael Jordan che ha portato la Nba e il basket a un livello più alto. Ma soprattutto, il giocatore del passato che sembra aver avuto l’influenza maggiore su di lui, pur nella diversità dei ruoli, è “Pistol” Pete Maravich: il tiro con range illimitato, il passaggio a una mano dal fianco, la capacità di tenere vivo il palleggio in qualunque situazione con acrobazie mai viste erano tra i “marchi di fabbrica” del mitico giocatore di LSU (dove segnò in tre stagioni 44,2 punti di media, record mai nemmeno avvicinato) e Curry ripropone tutto questo in un contesto fisico e atletico totalmente diverso, il che rende tutto ancora più difficile.

Direte: dài, ora non esagerare… Ma io vi offro un altro elemento da tener presente. Negli ultimi vent’anni diverse squadre di alto livello hanno provato a portare sul parquet un modo diverso di giocare, a ritmi più elevati e quindi con un numero altissimo di possessi: penso ai Sacramento Kings di Rick Adelman, ai Phoenix Suns di Mike D’Antoni, ai Dallas Mavericks e agli stessi Golden State Warriors di Don Nelson. Ma nonostante stagioni regolari a volte addirittura sfavillanti, nessuna di queste ha mai vinto perché – è uno dei luoghi comuni più praticati nella Nba – nei playoff sale l’intensità, aumenta la durezza delle difese, la lotta a rimbalzo abbassa i ritmi e il basket run and gun non paga più. Ora provate a trovare un’eccezione…


Concludo con un ultimo spoiler: dopo avervi anticipato che Steph è destinato a restare nella memoria collettiva tra i grandissimi della Nba, vi svelo l’identità dell’unico difensore in grado di fermarlo. Si chiama Riley e lo trovate qui e qui. (Post spoiler: ci eravate cascati, vero?)

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