Kobe, Magic e il "mio" basket che se ne va

Kobe Bryant compirà 38 anni ad agosto, poco dopo il suo ritiro
Ho a lungo esitato prima di scrivere questo post. Perché non da aprile-maggio, ma già da domenica sera la Nba per me non è più la stessa: è iniziato, un po' a sorpresa per uno come lui, il farewell tour di Kobe Bryant, uno dei più grandi giocatori di basket di sempre e, senza alcun dubbio, il mio preferito in assoluto. E non è facile scrivere qualcosa su un argomento che da una parte ti tocca così tanto, e dall'altra è stato sviscerato da milioni di colleghi, opinionisti e semplici tifosi.
Michael Jeffrey Jordan
Dice: ma Michael. Michael è stato il più forte di tutti, ha vinto tutto e lo ha fatto in un modo speciale, ha cambiato questo gioco e quella Lega portando entrambi a un livello superiore, d'accordo. Tra l'altro, è il vero e proprio "totem" di Kobe, l'uomo al quale si ispira con la sua dedizione assoluta e la sua voglia di vincere ai limiti dell'ossessione. Però non ho mai tifato per MJ, mi limitavo ad ammirarlo: il mio cuore era gialloviola praticamente dalla preistoria, da quando (avevo 8 anni) leggevo in spiaggia le raccolte dell'Intrepido che mia madre comprava a pacchi in estate e trovavo un reportage sulle finali Nba del 1980, quelle in cui un playmaker piuttosto atipico perché alto 2,05 sostituiva il centro titolare (Kareem Abdul-Jabbar, mica Roy Hibbert) in gara-6 e ne metteva 42 in faccia a Moses Malone, con 15 rimbalzi e 7 assist. Si chiamava (si chiama) Earvin "Magic" Johnson ed è uno dei due soli giocatori Nba per i quali, al di là della mia passione per Manu Ginobili, io abbia mai veramente tifato.
L'altro, si sarà capito, è Kobe e in comune con Magic ha innanzitutto la canotta gialloviola dei Los Angeles Lakers a vita. Quella che Kobe voleva così tanto da far bluffare il proprio agente, Arn Tellem, con gli allora New Jersey Nets che volevano prenderlo con la scelta numero 8 al Draft del 1996 in uscita dalla Lower Merion High School di Philadelphia, senza che avesse giocato una sola partita al college. Ma lui voleva il gialloviola e lo ottenne: i Nets si tirarono indietro temendo che Bryant non firmasse per loro, i Lakers scambiarono la scelta numero 13 degli Charlotte Hornets con il centro Vlade Divac perché il loro general manager, il genio Jerry West, aveva messo da parte 121 milioncini in 7 anni per prendere Shaquille O'Neal e così iniziò "The Combo", l'accoppiata che avrebbe portato a LA ben tre titoli e tanti rimpianti.
Eppure, quando Kobe fu scelto dai Lakers lo conoscevo appena: Internet qui da noi era agli inizi, il basket americano passava già con una certa frequenza su Tele+ ma questo ragazzo veniva dal liceo! Certo, il suo cognome qui in Italia non passava inosservato perché il papà Joe era un vero e proprio
Joe Bryant alla Viola
"califfo" del nostro campionato: a Reggio Calabria aveva sforacchiato retine con la canotta della Viola, la squadra italiana per cui ho sempre tifato, meritandosi la mutazione del soprannome da "Jellybean" ("gelatina", perché nessuno era smooth come lui) a "E.T.". Una volta ne mise 69 sul campo, se non sbaglio, di Pescara e nella partita di ritorno al "Botteghelle" ne aggiunse altri 51: 120 punti in due gare alla stessa avversaria!
Considerando anche che Kobe, lì a Reggio, faceva il ball boy e iniziava la trafila nelle giovanili che avrebbe proseguito soprattutto a Reggio Emilia, imparando anche un eccellente italiano che in carriera gli è servito soprattutto nei momenti di incazzatura con compagni e arbitri, i link erano fin troppi: Kobe era il mio giocatore.
E lo è rimasto per vent'anni, tra le prime delusioni (la panchina, gli airball di gara-4 a Salt Lake City), i primi riconoscimenti e poi l'esplosione: titolo nel 2000, 2001 e 2002. Nel 2003 l'accusa di stupro in Colorado, le critiche per il suo egoismo e, ancora dopo, l'implosione: nel 2004 le liti con Shaq diventano insostenibili e i fortissimi Lakers con Payton e Malone si fanno travolgere in finale dai Detroit Pistons, Shaq va via e tornano le critiche, finché nel 2009 è un altro lungo totalmente diverso da Shaq, ovvero Pau Gasol, a fargli da spalla nella cavalcata trionfale verso il quarto anello, bissato peraltro l'anno dopo. Fanno cinque, quanti ne ha vinti Magic, uno in meno di Jordan; eppure non bastano ad assicurargli il rispetto di tutti i tifosi, i Kobe Haters proliferano e a lui, tutto sommato, dividere così tanto non sembra nemmeno interessare.
Nel frattempo arrivano il nuovo numero di maglia (al posto dell'8 il 24, uno in più del 23 di MJ), gli 81 punti contro Toronto, seconda prestazione di sempre, il primo e unico titolo di MVP (uno scandalo anche perché gli "rubano" quello del 2010, l'anno dei sette-diconsi-sette buzzer beaters o canestri vincenti negli ultimi secondi) e i grossi problemi fisici, dai quali peraltro Kobe non è mai stato del tutto immune. Oggi, anzi avantieri, l'annuncio; "Dear Basketball", recita la lettera aperta consegnata a The Players' Tribune, "My heart can take the pounding, my mind can handle the grind, but my body knows it's time to say goodbye", Goodbye, Kobe. Quando si ritirò Magic (la prima volta, intendo) fu una brutta botta, oggi è il "mio" basket, lo sport più bello del mondo, quello che ho adorato e seguito con passione per più di trent'anni, che se ne va.

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