giovedì 11 aprile 2019

Basket NBA: Steph come Charlie Sheen, LeBron come... il Fasullo

Charlie Sheen in "Major League" (film.it)

Avete mai visto il film Major League-La squadra più scassata della Lega? Niente di che, per carità; però tra i momenti migliori di questo “B-Movie sportivo” che ironizza sulla sfiga dei Cleveland Indians, squadra di baseball che non vince il titolo dal 1948 (e che, quando il film fu girato, non arrivava alle World Series dal 1954), c’è quello in cui il lanciatore Rick Vaughn, un pregiudicato non a caso soprannominato “Wild Thing” – interpretato da un allampanato Charlie Sheen – dopo essere stato tagliato scopre che il motivo per il quale i suoi lanci fortissimi non centrano mai il bersaglio è la miopia, e con gli occhiali diventa così forte da guidare la squadra alle World Series in barba alla proprietà che aveva venduto i giocatori migliori e comprato una serie di schiappe per avere una stagione perdente e trasferire la squadra a Miami.

Ora, quella in cui l’occhialuto Vaughn fa il suo rientro sulle note di Wild Thing nell’ultimo inning della partita contro gli storici rivali dei New York Yankees, eliminando il loro battitore più temuto con tre fastball a 100 miglia orarie, è una scena giustamente cult ma impallidisce davanti alle clamorose notizie provenienti dalla NBA e riguardanti Steph Curry, playmaker dei Warriors due volte MVP della Lega e probabilmente il miglior tiratore da tre punti della storia del gioco. Il quale aveva mostrato ultimamente qualche difficoltà insolita proprio nella sua specialità (stava tirando con il 36% a febbraio, poverino) ma nelle ultime partite è tornato a martellare con percentuali assurde, addirittura vicine al 50 per cento. A un giornalista che gli chiedeva il motivo di questo improvviso miglioramento, Curry ha risposto facendo spallucce: «Ho messo le lenti a contatto». Sì, perché Steph convive da anni con il cheratocono, una patologia degenerativa della cornea che produce una riduzione del passaggio della luce e una distorsione della visione. Insomma, l’uomo delle 402 triple in una stagione, delle 157 partite con almeno un canestro da tre, lo specialista del logo shot (il tiro da centrocampo che segna con una continuità irreale) non vedeva bene. NON VEDEVA BENE, capito?

Stephen Curry versione Puffo Quattrocchi (pinterest)
E soprattutto: ora che Steph ci vede bene e probabilmente continuerà a segnare da tre punti con percentuali fuori dal mondo, chi mai potrà opporsi allo strapotere di Golden State, la prima squadra da decenni a schierare in quintetto cinque All-Star della stagione precedente? Chi potrà negare ai Warriors il terzo titolo consecutivo, il quarto in un quinquennio che li ha visti sconfitti solo dagli arbitri e dalla Lega in occasione della squalifica di Draymond Green dopo gara-4 del 2016 (sopra 3-1 contro Cleveland ma stremati dalla stagione da record delle 73 vittorie, senza il loro leader difensivo crollarono favorendo la rimonta dei Cavs targata LeBron James e Kyrie Irving)? La risposta è molto semplice: nessuno. Certo, come sempre non sarà facile venire fuori da quella tonnara che sono i playoff a Ovest (ai Warriors toccheranno i Clippers al primo turno e Houston già in semifinale di Conference), ma stiamo parlando di una delle squadre più forti di tutti i tempi, che peraltro potrebbe essere al suo canto del cigno visto che in estate sia Kevin Durant sia Klay Thompson diventeranno free agent. A tratti in stagione regolare hanno giocato in modalità pilota automatico, ma quando si farà sul serio non ce ne sarà per nessuno.

La frustrazione di LeBron James sulla panchina dei Lakers
Anche perché il passaggio nel temutissimo Ovest, con la gloriosa ma scolorita canotta dei Los Angeles Lakers, è costato a LeBron James la prima annata senza i playoff dal 2006 (e dopo addirittura otto NBA Finals consecutive!). L’autoproclamato “miglior giocatore di sempre” – sì, e Michael Jordan sta ancora ridendo – ha affrontato il suo tabù, essenzialmente per portare il suo brand in un mercato planetario ma anche per raccogliere l’eredità di Magic Johnson e di Kobe Bryant, e ha fallito. è vero che ha subìto un infortunio quando i Lakers erano in quarta posizione, ma in fondo ha saltato solo una dozzina di partite e, da quando è tornato, i gialloviola sono rimasti sotto il 50 per cento di vittorie vedendo l’obiettivo playoff allontanarsi gara dopo gara. La folle decisione di Magic, presidente della franchigia (anzi, “ex” visto che si è dimesso a sorpresa dopo l’ultima gara di regular season), di offrire a New Orleans praticamente tutto il roster in cambio di Anthony Davis ha fatto il resto, ma vi pongo una semplice domanda: Kobe, il tanto vituperato Kobe – che è stato molto più forte di LeBron e soprattutto non ha fatto per dieci anni “passi” in partenza ogni qualvolta metteva la palla a terra – avrebbe mai permesso che accadesse una cosa simile? Naaaa. E non parliamo di MJ, che piuttosto avrebbe ucciso presidente e gm. Il ritorno del Fasullo? Beh, magari il soprannome che gli avevo dato resta ingeneroso, ma di sicuro LeBron è riuscito in una sola stagione a dare definitivamente ragione a tutti i suoi detrattori. E ora, con l’addio di Magic – il quale aveva da tempo garantito che quest’estate avrebbe firmato una, forse due superstar – la sensazione è che i Lakers dovranno ripartire da zero (o quasi) per l’ennesima volta negli ultimi anni.

Non che a parte Warriors e Lakers l’Ovest non abbia regalato sorprese o storie da copertina, anzi. Pesco dal mazzo: James Harden che chiude la stagione sopra i 36 punti a partita, cosa che non riusciva a nessuno dai tempi del giovane Jordan; la terza annata consecutiva di Russell Westbrook in “tripla doppia” di media; i Clippers di un favoloso Danilo Gallinari (miglior stagione in carriera a 20 punti e 6 rimbalzi di media con il 43% da tre e il 90% ai liberi) che hanno smobilitato cedendo Tobias Harris e altri giocatori – e prima era toccato a Chris Paul, Blake Griffin e DeAndre Jordan – in cambio di scelte future per ricostruire, e invece faranno i playoff sfiorando le 50 vittorie; ma soprattutto i San Antonio Spurs “abbandonati”, dopo Tim Duncan, anche da Tony Parker, Manu Ginobili, Kawhi Leonard e Pau Gasol, che hanno via via perso per infortunio il play titolare Dejounte Murray, per un lungo periodo la guardia Derrick White e nelle previsioni erano certamente fuori dalla post-season dopo essersi qualificati per 22 anni consecutivi. Beh, come è andata lo sapete: l’ennesimo miracolo di Gregg Popovich (che sarebbe un legittimo coach dell’anno, ma forse sarebbe meglio intitolare il premio a lui e darlo a un altro, come si diceva di Jerry West come executive of the year), che con gente come Patty Mills, Jakob Poeltl, Devis Bertans e il grande ritorno di Marco Belinelli (11 punti, 37.5% da tre e 90% dalla lunetta) ha centrato una qualificazione ai playoff incredibile, e se fossi nei Denver Nuggets starei molto, molto attento alla truppa di “Pop”...

Tanta roba per una semifinale... (clutchpoints.com)
In realtà, in questo Ovest che somiglia sempre più a una serie A della NBA ci sono state anche altre sorprese, e che sorprese; dagli stessi Denver Nuggets che intorno al centro serbo Nikola Jokic (stagione da MVP a 20 punti, 11 rimbalzi e 7 assist di media) hanno costruito vittorie su vittorie e avranno la seconda testa di serie, ai Portland Trailblazers del sempre sottovalutato Damian Lillard che arrivano in grande forma nonostante gli infortuni di Nurkic e McCollum, agli Utah Jazz di un coach anche lui poco considerato come Quin Snyder che, appena Donovan Mitchell ha superato la sophomore slump (il calo tipico dei giocatori al secondo anno dopo una grande stagione da rookie), non hanno praticamente più perso. Cos’hanno in comune queste tre squadre? Che nessuno le accreditava in ottica playoff: troppa concorrenza ad alto livello e una sceneggiatura già scritta. Perché tutti volevano Golden State contro Houston, Steph Curry contro Chris Paul, Kevin Durant contro James Harden e via dicendo. L’anno scorso la finale di Conference finì con i Warriors vittoriosi in gara-7 fuori casa sui Rockets privi del loro play, quest’anno però si affronteranno al secondo turno, quindi almeno Nuggets e Blazers hanno una chance per un posto in finale a Ovest. A patto di non sottovalutare Oklahoma City e a meno che a San Antonio abbiano deciso che questa stagione diventi leggendaria.  

Giannis Antetokounmpo candidato MVP (nba.com)
Chi ha approfittato del trasloco di LeBron dalla Eastern Conference, per il momento, sono i Milwaukee Bucks trascinati – letteralmente – al miglior record della Lega da Giannis Antetokounmpo, che rischia concretamente di soffiare al Barba il titolo di MVP (28 punti, 12 rimbalzi, 6 assist a partita per The Greek Freak). Inseguono le altre tre “superpotenze” Toronto, Philadelphia e Boston, che continua a sembrarmi la più forte del lotto e la favorita per raggiungere le Finals soprattutto ora che Gordon Hayward si sta ritrovando dopo il grave infortunio. Però avrà l’impegno più duro del primo turno contro i sorprendenti Indiana Pacers, anche loro vicini alle 50 vittorie nonostante abbiano dovuto fare a meno della loro stella Victor Oladipo da gennaio. Più ancora dei solidi Raptors di Kawhi Leonard (chissà se questa stagione molto positiva convincerà l’ex Spurs a rimanere... Secondo me non se ne parla proprio), la rivale più pericolosa per la finale di Conference sono i Philadelphia 76ers che in semifinale dovrebbero incrociare proprio Toronto mentre Milwaukee-Boston sembra quasi una finale anticipata. Resta il fatto che, chiunque vinca, con ogni probabilità verrà travolto o comunque battuto dalla vincitrice dell’Ovest.

Chiudo con una rapida carrellata di (im)possibili premi stagionali. Mvp: vincerà Giannis, recriminerà il Barba, io lo do a Stephen Curry (27.3 punti, oltre 5 rimbalzi e 5 assist, 43% abbondante da tre senza lentine!). Difensore dell’anno: il premio andrà a Rudy Gobert, ma lo meriterebbe uno che, se non fosse così forte in attacco, verrebbe probabilmente considerato come il più forte specialista della Lega, ovvero Paul George (28 punti, 8.2 rimbalzi, 2.2 recuperi e 0.4 stoppate di media). Sesto uomo dell’anno: qui è proprio difficile andare contro i pronostici quando un giocatore parte dalla panchina e mette insieme cifre del genere (20 punti, oltre 5 assist, 88% ai liberi). Auguri Lou Williams... Rookie dell’anno: il finale di stagione imperioso di Trae Young e il concomitante calo dei Dallas Mavericks hanno un po’ mischiato le carte, ma che Dio mi fulmini se il premio non è tutto di Luka Doncic. Fa un po’ ridere lo stupore degli americani per le prestazioni di uno che a 18 anni ha dominato l’Eurolega (non la NCAA, con tutto il rispetto): questo è un campione fatto e finito. Coach dell’anno: lasciate perdere Kenny Atkinson di Brooklyn e Steve Clifford di Orlando perché fare i playoff a Est, pur con una squadra non particolarmente ricca di talento, non vale quanto la stessa impresa a Ovest. Quindi l’unico a poter insidiare il premio a Gregg Popovich è Doc Rivers che ha portato i Clippers alla post-season proprio quando sembrava volessero solo ricostruire. Menzione d’onore per Mike Budenholzer (è vero, Milwaukee ha chiuso con il miglior record della Lega ma se hai Giannis non è questa grande sorpresa...) e Mike Malone di Denver, intrigante seconda testa di serie a Ovest.

Infine, un piccolo omaggio da appassionato: ieri notte hanno giocato la loro ultima gara in carriera due superstar indissolubilmente legate alla squadra in cui hanno sempre militato ma anche tra loro per via di due finali NBA, quelle del 2006 e del 2011 (la prima e la seconda nella storia delle due franchigie), vinte una per parte con conseguente titolo di MVP e, curiosamente, vinte sempre dalla squadra che non era favorita. Dirk Nowitzki ha chiuso da sesto miglior realizzatore ogni epoca, Mvp del 2006 e campione NBA nel 2011 con Dallas; Dwyane Wade si può fregiare di tre titoli vinti a Miami, ma quello del 2006 senza LeBron è certamente il punto più alto della sua carriera. Due campioni destinati a finire presto nella Hall of Fame ai quali – soprattutto a Wade e agli Heat, in corsa fino all’ultima giornata – è mancato l’acuto della qualificazione ai playoff. Per la serata di addio, comunque, Dirk a quarantun anni ne ha messi ancora 20 mentre Dwyane ha chiuso con una “tripla doppia”.
Due grandissimi al passo d'addio (eurosport.com)

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