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Charlie Sheen in "Major League" (film.it) |
Avete
mai visto il film Major League-La squadra
più scassata della Lega? Niente di che, per carità; però tra i momenti
migliori di questo “B-Movie sportivo” che ironizza sulla sfiga dei Cleveland
Indians, squadra di baseball che non vince il titolo dal 1948 (e che, quando il
film fu girato, non arrivava alle World Series dal 1954), c’è quello in cui il
lanciatore Rick Vaughn, un pregiudicato non a caso soprannominato “Wild Thing” –
interpretato da un allampanato Charlie Sheen – dopo essere stato tagliato scopre
che il motivo per il quale i suoi lanci fortissimi non centrano mai il
bersaglio è la miopia, e con gli occhiali diventa così forte da guidare la
squadra alle World Series in barba alla proprietà che aveva venduto i giocatori
migliori e comprato una serie di schiappe per avere una stagione perdente e
trasferire la squadra a Miami.
Ora, quella in cui
l’occhialuto Vaughn fa il suo rientro sulle note di Wild Thing nell’ultimo inning della partita contro gli storici
rivali dei New York Yankees, eliminando il loro battitore più temuto con tre fastball a 100 miglia orarie, è una
scena giustamente cult ma impallidisce
davanti alle clamorose notizie provenienti dalla NBA e riguardanti Steph Curry,
playmaker dei Warriors due volte MVP della Lega e probabilmente il miglior
tiratore da tre punti della storia del gioco. Il quale aveva mostrato
ultimamente qualche difficoltà insolita proprio nella sua specialità (stava
tirando con il 36% a febbraio, poverino) ma nelle ultime partite è tornato a
martellare con percentuali assurde, addirittura vicine al 50 per cento. A un
giornalista che gli chiedeva il motivo di questo improvviso miglioramento,
Curry ha risposto facendo spallucce: «Ho messo le lenti a contatto». Sì, perché
Steph convive da anni con il cheratocono, una patologia degenerativa della
cornea che produce una riduzione del passaggio della luce e una distorsione
della visione. Insomma, l’uomo delle 402 triple in una stagione, delle 157
partite con almeno un canestro da tre, lo specialista del logo shot (il tiro da centrocampo che segna con una continuità
irreale) non vedeva bene. NON VEDEVA BENE, capito?
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Stephen Curry versione Puffo Quattrocchi (pinterest) |
E soprattutto: ora che
Steph ci vede bene e probabilmente continuerà a segnare da tre punti con
percentuali fuori dal mondo, chi mai potrà opporsi allo strapotere di Golden
State, la prima squadra da decenni a schierare in quintetto cinque All-Star
della stagione precedente? Chi potrà negare ai Warriors il terzo titolo
consecutivo, il quarto in un quinquennio che li ha visti sconfitti solo dagli
arbitri e dalla Lega in occasione della squalifica di Draymond Green dopo
gara-4 del 2016 (sopra 3-1 contro Cleveland ma stremati dalla stagione da
record delle 73 vittorie, senza il loro leader difensivo crollarono favorendo
la rimonta dei Cavs targata LeBron James e Kyrie Irving)? La risposta è molto
semplice: nessuno. Certo, come sempre non sarà facile venire fuori da quella
tonnara che sono i playoff a Ovest (ai Warriors toccheranno i Clippers al primo
turno e Houston già in semifinale di Conference), ma stiamo parlando di una
delle squadre più forti di tutti i tempi, che peraltro potrebbe essere al suo
canto del cigno visto che in estate sia Kevin Durant sia Klay Thompson
diventeranno free agent. A tratti in
stagione regolare hanno giocato in modalità pilota automatico, ma quando si
farà sul serio non ce ne sarà per nessuno.
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La frustrazione di LeBron James sulla panchina dei Lakers |
Anche perché il passaggio
nel temutissimo Ovest, con la gloriosa ma scolorita canotta dei Los Angeles
Lakers, è costato a LeBron James la prima annata senza i playoff dal 2006 (e
dopo addirittura otto NBA Finals consecutive!). L’autoproclamato “miglior
giocatore di sempre” – sì, e Michael Jordan sta ancora ridendo – ha affrontato
il suo tabù, essenzialmente per portare il suo brand in un mercato planetario ma anche per raccogliere l’eredità
di Magic Johnson e di Kobe Bryant, e ha fallito. è vero che ha subìto un infortunio quando i Lakers erano in
quarta posizione, ma in fondo ha saltato solo una dozzina di partite e, da
quando è tornato, i gialloviola sono rimasti sotto il 50 per cento di vittorie
vedendo l’obiettivo playoff allontanarsi gara dopo gara. La folle decisione di
Magic, presidente della franchigia (anzi, “ex” visto che si è dimesso a
sorpresa dopo l’ultima gara di regular
season), di offrire a New Orleans praticamente tutto il roster in cambio di
Anthony Davis ha fatto il resto, ma vi pongo una semplice domanda: Kobe, il
tanto vituperato Kobe – che è stato molto più forte di LeBron e soprattutto non
ha fatto per dieci anni “passi” in partenza ogni qualvolta metteva la palla a
terra – avrebbe mai permesso che accadesse una cosa simile? Naaaa. E non parliamo di MJ, che
piuttosto avrebbe ucciso presidente e gm. Il ritorno del Fasullo? Beh, magari
il soprannome che gli avevo dato resta ingeneroso, ma di sicuro LeBron è
riuscito in una sola stagione a dare definitivamente ragione a tutti i suoi
detrattori. E ora, con l’addio di Magic – il quale aveva da tempo garantito che
quest’estate avrebbe firmato una, forse due superstar – la sensazione è che i
Lakers dovranno ripartire da zero (o quasi) per l’ennesima volta negli ultimi
anni.
Non che a parte Warriors
e Lakers l’Ovest non abbia regalato sorprese o storie da copertina, anzi. Pesco
dal mazzo: James Harden che chiude la stagione sopra i 36 punti a partita, cosa
che non riusciva a nessuno dai tempi del giovane Jordan; la terza annata
consecutiva di Russell Westbrook in “tripla doppia” di media; i Clippers di un
favoloso Danilo Gallinari (miglior stagione in carriera a 20 punti e 6 rimbalzi
di media con il 43% da tre e il 90% ai liberi) che hanno smobilitato cedendo
Tobias Harris e altri giocatori – e prima era toccato a Chris Paul, Blake
Griffin e DeAndre Jordan – in cambio di scelte future per ricostruire, e invece
faranno i playoff sfiorando le 50 vittorie; ma soprattutto i San Antonio Spurs
“abbandonati”, dopo Tim Duncan, anche da Tony Parker, Manu Ginobili, Kawhi
Leonard e Pau Gasol, che hanno via via perso per infortunio il play titolare
Dejounte Murray, per un lungo periodo la guardia Derrick White e nelle
previsioni erano certamente fuori dalla post-season dopo essersi qualificati
per 22 anni consecutivi. Beh, come è andata lo sapete: l’ennesimo miracolo di Gregg
Popovich (che sarebbe un legittimo coach dell’anno, ma forse sarebbe meglio
intitolare il premio a lui e darlo a un altro, come si diceva di Jerry West
come executive of the year), che con
gente come Patty Mills, Jakob Poeltl, Devis Bertans e il grande ritorno di
Marco Belinelli (11 punti, 37.5% da tre e 90% dalla lunetta) ha centrato una
qualificazione ai playoff incredibile, e se fossi nei Denver Nuggets starei
molto, molto attento alla truppa di “Pop”...
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Tanta roba per una semifinale... (clutchpoints.com) |
In realtà, in questo
Ovest che somiglia sempre più a una serie A della NBA ci sono state anche altre
sorprese, e che sorprese; dagli stessi Denver Nuggets che intorno al centro
serbo Nikola Jokic (stagione da MVP a 20 punti, 11 rimbalzi e 7 assist di
media) hanno costruito vittorie su vittorie e avranno la seconda testa di
serie, ai Portland Trailblazers del sempre sottovalutato Damian Lillard che
arrivano in grande forma nonostante gli infortuni di Nurkic e McCollum, agli
Utah Jazz di un coach anche lui poco considerato come Quin Snyder che, appena Donovan
Mitchell ha superato la sophomore slump (il
calo tipico dei giocatori al secondo anno dopo una grande stagione da rookie), non hanno praticamente più
perso. Cos’hanno in comune queste tre squadre? Che nessuno le accreditava in
ottica playoff: troppa concorrenza ad alto livello e una sceneggiatura già scritta.
Perché tutti volevano Golden State contro Houston, Steph Curry contro Chris
Paul, Kevin Durant contro James Harden e via dicendo. L’anno scorso la finale
di Conference finì con i Warriors vittoriosi in gara-7 fuori casa sui Rockets
privi del loro play, quest’anno però si affronteranno al secondo turno, quindi almeno
Nuggets e Blazers hanno una chance
per un posto in finale a Ovest. A patto di non sottovalutare Oklahoma City e a
meno che a San Antonio abbiano deciso che questa stagione diventi leggendaria.
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Giannis Antetokounmpo candidato MVP (nba.com) |
Chi ha approfittato del
trasloco di LeBron dalla Eastern Conference, per il momento, sono i Milwaukee
Bucks trascinati – letteralmente – al miglior record della Lega da Giannis
Antetokounmpo, che rischia concretamente di soffiare al Barba il titolo di MVP
(28 punti, 12 rimbalzi, 6 assist a partita per The Greek Freak). Inseguono le
altre tre “superpotenze” Toronto, Philadelphia e Boston, che continua a
sembrarmi la più forte del lotto e la favorita per raggiungere le Finals
soprattutto ora che Gordon Hayward si sta ritrovando dopo il grave infortunio.
Però avrà l’impegno più duro del primo turno contro i sorprendenti Indiana
Pacers, anche loro vicini alle 50 vittorie nonostante abbiano dovuto fare a
meno della loro stella Victor Oladipo da gennaio. Più ancora dei solidi Raptors
di Kawhi Leonard (chissà se questa stagione molto positiva convincerà l’ex
Spurs a rimanere... Secondo me non se ne parla proprio), la rivale più
pericolosa per la finale di Conference sono i Philadelphia 76ers che in
semifinale dovrebbero incrociare proprio Toronto mentre Milwaukee-Boston sembra
quasi una finale anticipata. Resta il fatto che, chiunque vinca, con ogni
probabilità verrà travolto o comunque battuto dalla vincitrice dell’Ovest.
Chiudo con una rapida
carrellata di (im)possibili premi stagionali. Mvp: vincerà Giannis, recriminerà il Barba, io lo do a Stephen Curry (27.3 punti, oltre 5
rimbalzi e 5 assist, 43% abbondante da tre senza lentine!). Difensore dell’anno: il premio andrà a
Rudy Gobert, ma lo meriterebbe uno che, se non fosse così forte in attacco,
verrebbe probabilmente considerato come il più forte specialista della Lega,
ovvero Paul George (28 punti, 8.2
rimbalzi, 2.2 recuperi e 0.4 stoppate di media). Sesto uomo dell’anno: qui è proprio difficile andare contro i
pronostici quando un giocatore parte dalla panchina e mette insieme cifre del
genere (20 punti, oltre 5 assist, 88% ai liberi). Auguri Lou Williams... Rookie
dell’anno: il finale di stagione imperioso di Trae Young e il concomitante
calo dei Dallas Mavericks hanno un po’ mischiato le carte, ma che Dio mi
fulmini se il premio non è tutto di Luka
Doncic. Fa un po’ ridere lo stupore degli americani per le prestazioni di
uno che a 18 anni ha dominato l’Eurolega (non la NCAA, con tutto il rispetto):
questo è un campione fatto e finito. Coach
dell’anno: lasciate perdere Kenny Atkinson di Brooklyn e Steve Clifford di
Orlando perché fare i playoff a Est, pur con una squadra non particolarmente
ricca di talento, non vale quanto la stessa impresa a Ovest. Quindi l’unico a
poter insidiare il premio a Gregg
Popovich è Doc Rivers che ha portato i Clippers alla post-season proprio
quando sembrava volessero solo ricostruire. Menzione d’onore per Mike
Budenholzer (è vero, Milwaukee ha chiuso con il miglior record della Lega ma se
hai Giannis non è questa grande sorpresa...) e Mike Malone di Denver,
intrigante seconda testa di serie a Ovest.
Infine, un piccolo
omaggio da appassionato: ieri notte hanno giocato la loro ultima gara in
carriera due superstar indissolubilmente legate alla squadra in cui hanno
sempre militato ma anche tra loro per via di due finali NBA, quelle del 2006 e
del 2011 (la prima e la seconda nella storia delle due franchigie), vinte una
per parte con conseguente titolo di MVP e, curiosamente, vinte sempre dalla
squadra che non era favorita. Dirk Nowitzki ha chiuso da sesto miglior
realizzatore ogni epoca, Mvp del 2006 e campione NBA nel 2011 con Dallas;
Dwyane Wade si può fregiare di tre titoli vinti a Miami, ma quello del 2006
senza LeBron è certamente il punto più alto della sua carriera. Due campioni
destinati a finire presto nella Hall of Fame ai quali – soprattutto a Wade e agli
Heat, in corsa fino all’ultima giornata – è mancato l’acuto della
qualificazione ai playoff. Per la serata di addio, comunque, Dirk a quarantun
anni ne ha messi ancora 20 mentre Dwyane ha chiuso con una “tripla doppia”.
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Due grandissimi al passo d'addio (eurosport.com) |
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