Nba: la notte in cui tutto andò a posto

Kobe Bryant saluta Magic Johnson (Getty images)
Pensate a qualcosa di così grande, di così straordinario, di così epocale da oscurare persino il record assoluto di vittorie in una stagione Nba. Perché è quello che è successo ieri notte, nella notte in cui tutto andò a posto. I Golden State Warriors, battendo i Memphis Grizzlies, hanno centrato il successo numero 73 oscurando nientemeno che i Chicago Bulls di Michael Jordan, eppure… non è fregato un cazzo a nessuno.
E sì, perché per una volta in questa stagione il palcoscenico non è stato di Steph Curry, che pure ha chiuso un’annata irripetibile con 46 punti, 10/19 da tre e il record assoluto di triple messe a segno (402!), ma ovviamente di Kobe Bryant. Nello scenario più consono, vale a dire Hollywood, il Black Mamba ci ha salutato non solo mettendone 60, più del doppio di quanti ne avesse segnati chiunque altro al passo d’addio (il massimo fino a ieri erano i 27 di John Havlicek), ma soprattutto con un finale di partita leggendario: sotto di 10 a 3’30” dalla fine contro gli Utah Jazz, i Lakers si sono ritrovati in tasca la diciassettesima W di questa stagione, la peggiore della loro storia, grazie a una rimonta pazzesca condita dai 13 punti del numero 24, capace di mettere gli ultimi 5 tiri, tra i quali anche il canestro del sorpasso a 31” dalla sirena, e pure i liberi della sicurezza.
Lasciate fottere i 50 tiri dal campo, probabilmente più di quanti ne abbia mai visti scagliare da un giocatore in singola partita, e lasciate fottere anche il terribile 6/21 da tre: se nell’ultimo quarto allo Staples Center nessuno è rimasto seduto e se alla fine anche Jack Nicholson appariva commosso (ma lui è un attore, io ho guardato tutto l’ultimo quarto piangendo come un vitello), allora vuol dire che probabilmente non vedremo mai più niente del genere. Altri saranno più bravi a snocciolare quello che KB ha vinto: i cinque anelli, il titolo di Mvp del 2009 (ma avrebbe meritato ancora di più l’anno prima), i due ori olimpici, il terzo posto nella classifica dei marcatori all time a quota 33 mila punti. Ma per chi, come me, è nato con la canottiera gialloviola ed è cresciuto ammirando le mirabilie di Magic e dei suoi Lakers dello showtime, Kobe è molto di più dei numeri.
Kobe aveva, direi, otto-nove anni quando la Viola Reggio Calabria firmava papà Joe, a Rieti la stagione precedente, realizzatore sopraffino tanto da meritarsi in America il soprannome Jellybean, “gelatina”, che però a Reggio diventò subito E.T. E in effetti, per gli standard della serie A2 italiana Joe Bryant era davvero un extraterrestre: chiedetelo ai tifosi di Pescara, che lo videro metterne 69 in una partita in casa loro e poi, al ritorno al Botteghelle, aggiungerne altri 51… Dal papà, che era un’ala di 2.08 con nessuna propensione per la difesa e il passaggio, tecnicamente Kobe ha preso pochino, e probabilmente meno ancora dal punto di vista dell’attitudine.
Perché al di là delle meravigliose qualità tecniche e dell’intelligenza cestistica superiore, il Mamba ha fatto epoca principalmente per la sua sconfinata voglia di vincere, per l’ossessione di migliorarsi, per la dedizione assoluta ai Lakers e al basket. E non ci saranno processi per stupro, accuse di egoismo, liti con i compagni di squadra, lovers e haters che potranno togliergli – e toglierci – questo.


Da quando il maestro Jerry West ha ordito una complessa trama per portare a Los Angeles il 18enne Kobe e il già dominante Shaq, è stato chiaro che l’uomo franchigia, il Laker a vita sarebbe stato lui. Come Jordan, anzi – in questo – meglio di Jordan. Lascia mettendone 60, come a sostenere che potrebbe anche continuare e che, pure oltre i 38 anni, potrebbe ancora sculacciare tanti avversari. Ma questo già lo sapevamo; gli infortuni delle ultime stagioni gli hanno negato l’ultimo assalto al sesto titolo, quello che gli avrebbe permesso di agganciare MJ. Ma va bene così: grazie Kobe, il basket non è stato più lo stesso con te e, purtroppo, non sarà più lo stesso senza di te.

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