Poz, Kidd, Rose e Collins: storie di point guard (anzi, di playmaker)

E’ una di quelle parole inglesi che abbiamo trascinato a peso nella lingua italiana senza sapere quale fosse il loro vero significato. Tanto che da loro – intendo in America – “playmaker” è l’atleta in grado di fare le giocate decisive mentre il ruolo che noi definiamo così è quello di “point guard” (guardia, ovvero esterno, che gioca in punta, quindi fronte al canestro avversario).

Tuttavia, non è più tanto raro che la “point guard” sia il “playmaker” della squadra, ovvero che decida le partite; il suo ruolo di spalla, di comprimario così com’era disegnato dal basket tradizionale, nel quale – pur con eccezioni – il play si limita a passare la metà campo palla in mano e innescare con il passaggio i compagni, si è enormemente evoluto e oggi sono davvero tanti i “numeri 1” (altra definizione del ruolo sul parquet) migliori realizzatori delle loro squadre o comunque più votati al tiro o alla penetrazione che non alla distribuzione del gioco.

E anche se questa regola di fatto non esiste (nel calcio abbiamo avuto portieri e centravanti che sono diventati ottimi allenatori), la superiore conoscenza del gioco, il cosiddetto “Q.I. cestistico” e la necessità di osservare e governare tutti i movimenti della squadra specie in attacco fanno del playmaker il candidato ideale a spostarsi, a carriera finita, sulla panchina. Con esiti non sempre scontati, ma a tratti sorprendenti.

Gianmarco Pozzecco
Di quest’ultima categoria è portabandiera Gianmarco Pozzecco, ex giamburrasca del cinque contro cinque (ma anche dell’uno contro cinque…) che alla seconda stagione a Capo d’Orlando sta dimostrando di essere stato tutt’altro che solo un istintivo, un guascone, un individualista con poca attenzione al gioco di squadra e alla difesa. O meglio: alla difesa non ci pensava proprio, ma ora che allena ha trovato proprio in questo fondamentale la sua Nemesi. Dopo aver preso l’Orlandina da 0-6 e averla portata a sfiorare i playoff di Legadue l’anno scorso, in questo campionato il “Poz” è partito male soprattutto a causa degli infortuni (3 sconfitte consecutive), ma da quando ha la squadra quasi al completo è imbattuto, con 6 vittorie in fila almeno metà delle quali ottenute contro pretendenti alla promozione: Verona e ieri Napoli in casa, Barcellona e Torino in trasferta. Risultato: quarto posto in classifica e squadra in piena corsa playoff proprio con la difesa, il gruppo, la voglia di vincere che anima anche campioni come Basile, Soragna, Nicevic che avrebbero tutto per essere ormai appagati. Dopo il successo di Forlì, il “Poz” ha twittato: “Da giocatore pensavo che l’allenatore non contasse nulla… Ora ne ho avuto la conferma!”.

Altro grande play transitato sulla panchina ma con esiti opposti è Jason Kidd, divinità locale del New Jersey (dopo aver portato i Nets a due finali Nba negli anni Duemila) con tanto di maglia ritirata, chiamato dal magnate russo Mikhail Prokhorov a guidare la nuova Brooklyn con tante stelle (Deron Williams, Joe Johnson, gli ultimi arrivi Paul Pierce e Kevin Garnett) e il payroll, ovvero il monte stipendi, più alto della Lega a quota 101 milioni di dollari. Fin qui, però, un flop: 3 vinte e 10 perse, playoff lontanissimi, i “vecchietti” apparsi davvero troppo vecchietti e una qualità di basket addirittura infima. Tanto che la sua avventura al nuovo Barclays Center potrebbe essere vicina al capolinea.

Derrick Rose contro Jason Kidd
Chi invece è ancora sul campo, o meglio ci ha provato ma è stato costretto a fermarsi nuovamente, è Derrick Rose, 25enne stella dei Chicago Bulls che lo hanno preso con la prima chiamata assoluta al Draft del 2008. D-Rose, uscito dall’Università di Memphis con grandi numeri, ha entusiasmato anche nella Nba (Mvp della Lega nel 2011, il più giovane della storia) fino all’infortunio al legamento crociato del ginocchio sinistro che lo ha tenuto fuori per un anno e mezzo. Era rientrato in questa stagione, partendo bene anche se, per il suo stile di gioco tutto basato su velocità, forza fisica e cambi di direzione, le perplessità sul fatto che potesse tornare ai suoi livelli non mancavano; purtroppo, però, si è nuovamente infortunato e oggi sarà operato per una lesione al menisco del ginocchio destro che rischia di fargli chiudere anticipatamente anche questa stagione. Davvero un dramma sportivo per uno dei giocatori più forti dell’ultima generazione, che speriamo non faccia la fine dei vari Penny Hardaway o Tracy McGrady cui il fisico ha negato carriere da All-Star.


Senza alcun dubbio è un “All-Star” del campionato di DNA Gold Andre Collins, playmaker (in
Andre Collins
entrambi i sensi) della Sigma Barcellona. Il record stagionale di assist (ben 18) a condire una fantastica “tripla doppia” con 22 punti e 10 rimbalzi nella vittoria contro Biella, quarta consecutiva per la truppa giallorossa, conferma che “Deuce” è un giocatore di altra categoria, che non ha nulla a vedere con questi palcoscenici. E a Barcellona, dove ancora ricordano giustamente lo straordinario Gerrod Abram della stagione 1999/2000 chiusa a un passo dalla promozione in Serie A, sembrano aver ormai dimenticato i vari Joe Crispin, Mike Green e Taurean Green che hanno occupato la casella nelle ultime stagioni. E sì, perché uno da 20.2 punti, 5.4 rimbalzi, 8.3 assist col 40% da tre è chiaramente l’Mvp del campionato fino a questo punto e il condottiero ideale per centrare, finalmente, la sospirata promozione. Anche se fa 6/20 al tiro, che per numero di tentativi non è proprio una statistica da… “point guard”. Ma da "playmaker", quello sì.

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