Macché Chicago, questi Warriors sono i Lakers dello "showtime"
Klay Thompson e Stephen Curry all'All Star Game (gazzetta.it) |
La
pausa per l’All Star Weekend (ieri notte la partite delle stelle, sabato la
sorprendente sconfitta di Steph Curry nella gara del tiro da tre ad opera dello
“Splash Brother” Klay Thompson) è tradizionalmente il momento della stagione
Nba deputato ai primi bilanci, sia da parte dei dirigenti delle singole squadre
– anche perché a giorni scatta la trade deadline,
ovvero il termine ultimo per operare degli scambi sul mercato – che da parte
degli osservatori: favorite per il titolo, griglia playoff, delusioni iniziano
a materializzarsi nei commenti degli addetti ai lavori anche perché, a rigore,
manca appena una trentina di partite alla postseason.
Ebbene, in un’annata
“dopata” dal farewell tour del grande
Kobe Bryant, che ha annunciato il ritiro dopo un ventennio in cui ha anche
dominato la Lega (cinque anelli, un titolo di Mvp, 32 mila punti segnati e ben
venti apparizioni da All Star), il tema principale riguarda però la cavalcata
dei Golden State Warriors che, più che contro le avversarie – eppure a
inseguirli ci sono i San Antonio Spurs alla migliore partenza nella storia
della franchigia, e che franchigia… – ormai fanno la corsa sul record di
vittorie dei Chicago Bulls 1995/96, capaci di chiudere con un record di 72
vinte e 10 perse. I Warriors sono 48-4, in media per arrivare addirittura a 75
vittorie, ma la loro annata sarà comunque da ricordare anche se non va
tralasciato il fatto che quei Bulls poi il titolo, il quarto dell’era Jordan,
lo vinsero.
Rodman, Jordan e Pippen (nba.com) |
Se dal punto di vista
dei numeri il paragone tra queste due favolose squadre regge, lo stesso
ovviamente non si può dire in termini tecnici e di tipologia di gioco. Oltre a
un MJ già trentatreeenne, Phil Jackson aveva nel roster Dennis Rodman (35
primavere), Ron Harper (32), Scottie Pippen (30 come Steve Kerr, attuale
allenatore di Golden State) e via dicendo; logico che, al di là della triangle offense, il gioco di quei Bulls
fosse a ritmo controllato, con gli isolamenti di Jordan a dettare i tempi e la
difesa pazzesca assicurata dai tanti specialisti a togliere agli avversari
qualsiasi speranza. Ecco, forse è quest’ultimo il solo punto di contatto tra
questi due esempi, per il resto opposti, di basket vincente.
Golden State, che non a
caso segna oltre 115 punti a partita, predilige invece uno stile di gioco uptempo, non solo facendo ampio ricorso
a contropiede primario e transizione ma cercando sempre di arrivare a liberare
un uomo al tiro nei primi secondi dell’azione. Il che significa difese spesso
non schierate, aiuti e raddoppi che arrivano con maggiore difficoltà, uomini
liberi sul perimetro da dove praticamente tutti i giocatori di coach Steve Kerr
sono molto pericolosi. Pericolosi oltre che giovani e con margini di crescita persino
inquietanti: Steph Curry ha appena 27 anni, Klay Thompson e “Mr. Tripla Doppia”
Draymond Green 25, Harrison Barnes addirittura 23. Inoltre, hanno un contributo
importante da tanti giocatori, mentre in quei Bulls a parte MJ (30.4 di media
nella stagione) andavano in doppia cifra solo Pippen (19.4) e Toni Kukoc
(13.1).
Se quei Bulls erano
dunque, per certi versi, indirizzati verso la fine di un ciclo (anche se
vinsero altri due titoli prima del definitivo ritiro di Jordan), i Warriors
sembrano appena all’inizio di quella che potrebbe essere una dinastia. E non a
quella di Chicago, ma a un’altra grande dinastia della Nba del passato mi fa
pensare la squadra di Golden State: ai Los Angeles Lakers che infuocarono gli
anni Ottanta con il cosiddetto showtime.
Magic, Byron Scott, Jabbar e Michael Cooper |
Un fatto tecnico e
tanti parallelismi – alcuni, in verità, più suggestioni che altro – giustificano
il paragone: intanto, come si è detto, lo stile di gioco. Con l’immenso Magic
Johnson in regia, i Lakers di Paul Westhead prima e di Pat Riley dopo
spingevano il contropiede con un mix di velocità ed efficacia sconosciuto per
l’epoca, grazie anche a un arsenale offensivo che ricorda molto quello dei
Warriors attuali: se Curry è certamente più realizzatore di Magic (che però prendeva
un fottio di rimbalzi e partiva in palleggio o lanciava nell’altra metà campo,
mentre per Golden State sono più o meno tutti capaci di trasformare l’azione in
offensiva: un segno dei tempi e di come è cambiato il basket), in guardia c’era
Byron Scott che, per precisione sugli scarichi e bravura nell’uno contro uno,
potrebbe anche ricordare Klay Thompson. Il quale, va detto, è uno dei due
“figli” di quei Lakers: papà Mychal giocava da ala forte prima dell’era di
A.C. Green, mentre – a proposito di era – il dominio gialloviola sul decennio
era iniziato con il signor Bob McAdoo a crivellare le retine come forse non
farà mai il figlio James Michael, panchinaro di discreto talento proprio per
Golden State. E da Golden State veniva anche l'ala Jamaal Wilkes.
Klay Thompson con papà Mychal (latimes.com) |
Ma non finisce qui:
detto del ruolo di “collante” e della straordinaria leadership morale che
condividono i due Green, il vecchio A.C. e il giovane Draymond (prodotto di
Michigan State proprio come Magic), pur nelle differenze non si può non notare
come sia Harrison Barnes sia il campionissimo James Worthy provengano dai Tar Heels di
North Carolina. Certo, anche Jordan... Dove invece i Lakers erano enormemente
avvantaggiati è nello spot di centro, con uno dei più grandi campioni della
storia di questo gioco ovvero Kareem Abdul-Jabbar, anche se il contributo
dell’australiano Andrew Bogut in termini soprattutto di rimbalzi e
intimidazione non va trascurato. Dalla panchina, infine, tanta qualità nei
ruoli giusti per entrambe e soprattutto un “sesto uomo” da favola: Michael
Cooper allora, Andre Iguodala oggi. Due difensori fenomenali, ma capaci anche
di metterla dall’arco nei momenti importanti. Due campioni, in modo diverso ma
con un impatto sovrapponibile.
Il paragone porta con
sé un’ultima questione: quei Lakers vinsero la bellezza di cinque titoli tra il
1980 e il 1988, dove arriveranno questi Warriors? Difficile dirlo: quest’anno
sembrano poter rivincere, poi occorrerà capire dove andranno nelle prossime due
stagioni i free agent di primissima
fascia. Di certo c’è che, come L.A. negli anni Ottanta, Golden State (cioè
Oakland, sempre California) sta rivoluzionando questo gioco. E, al di là del
record di vittorie – d’altra parte quei Lakers non andarono mai oltre le 62
vittorie in regular season – questo
rimarrà. Per sempre.
P.S.: C'è un altro parallelismo tra queste due squadre, ed è forse il più concreto di tutti: la presenza, in entrambe le organizzazioni, di un genio come Jerry West, che dopo essere stato uno dei giocatori simbolo della Lega (tra i suoi soprannomi "Mr. Logo", perché la sagoma sul logo della Nba è la sua) ha letteralmente costruito i Los Angeles Lakers dal 1982 al 2000 vincendo quattro titoli più quelli del 2001 e 2002, conquistati comunque dalla "sua" squadra. Ebbene, West dal 2011 fa parte dell'organizzazione dei Warriors come "Executive Board Member", e certamente nei successi - personali e di franchigia - del general manager Bob Myers c'è il suo zampino.
Jerry West (nba.com) |
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