mercoledì 14 giugno 2017

NBA Finals: ma quindi ha vinto LeBron, giusto?

Adesso diranno tutti che era scontato, che se una squadra come i Golden State Warriors prende Kevin Durant non può non vincere il titolo, anche se dall’altro lato c’è il più forte del mondo e forse della storia. Uhm. Sedetevi un attimo e parliamone, anzi fate parlare IlMaxFactor che è meglio.

Partiamo da lontano ma lo facciamo in modalità “supervelocità”: un tempo, le grandi squadre che
Tre Hall of Famer in una sola panchina (insidehoops.com)
avevano bisogno di un upgrade tendevano a trovarlo al Draft. Ma come – direte voi – le scelte più alte non sono appannaggio delle squadre con il record peggiore? Esatto, però la strategia di scambiare giocatori già affermati o – meglio ancora – diretti verso fine carriera con prime scelte future consentiva comunque di rafforzarsi. E’ vero che all’epoca c’era più margine di manovra perché non esisteva ancora il salary cap (introdotto nel 1984 a quota 3,6 milioni di dollari, in questa stagione era di 98 milioni ma in realtà puoi anche sforarlo, basta che paghi la luxury tax), ma resta il fatto che in questo modo i Lakers, già fortissimi con Kareem Abdul-Jabbar, presero Magic (scelta opzionata tre anni prima cedendo Gail Goodrich a Utah) e successivamente anche James Worthy (prima scelta assoluta avuta da Cleveland in cambio di giocatori dimenticabili). E che dire dei Celtics che, scelto Larry Bird, l’anno dopo scambiarono Bob McAdoo con Detroit in cambio di due prime scelte, la seconda delle quali (la n.1 del 1980, divenuta Joe Barry Carroll) finì poi a Golden State per Robert Parish e la n.3 (Kevin McHale)?

Gli esempi sarebbero tanti, ma qui mi interessa rilevare che qualcosa è cambiato, e non da oggi
Garnett, Allen e Pierce con il titolo del 2008
. Ricordate gli Houston Rockets che, esaurita l’onda lunga dei due titoli di metà anni Novanta, nel ’96 aggiunsero Charles Barkley a una squadra che aveva già Drexler e Olajuwon perdendo in finale di Conference contro Utah e nel ’98 firmarono anche il 36enne Scottie Pippen? O i Lakers di inizio millennio che, per allungare il threepeat, portarono Gary Payton e un già 41enne Karl Malone alla corte di Kobe&Shaq salvo crollare in finale contro i Detroit Pistons? Fin lì, però, l’idea dei big three riguardava più che altro giocatori a fine carriera; cambiò tutto quando nell’estate del 2007, dopo un’annata da 24-58, ad affiancare il trentenne Paul Pierce ai Boston Celtics arrivarono Kevin Garnett (scambiato con ben sette tra giocatori e scelte!) e, con la rinuncia alla scelta n.5, anche Ray Allen. Il concetto è esattamente l’opposto di quello precedente: sacrificare scelte anche molto alte per prendere campioni già affermati. Quello che ha fatto Miami nel 2010, approfittando della free agency di LeBron per prelevarlo da Cleveland con un sign and trade in cambio di scelte future in abbondanza, e quindi firmando il free agent Chris Bosh. Gli Heat, che avevano già Dwyane Wade formato Mvp, vinsero due titoli nel 2012 e nel 2013.

I "big Three" di Miami hanno vinto nel 2012 e 2013
L’arrivo di Kevin Durant a Golden State, a ben vedere, è figlio di quella mossa di LeBron – anche se The King ha voluto tracciare dei distinguo al riguardo – e si è rivelato, dal punto di vista tecnico e sportivo, il principale motivo della “vendetta” dei Warriors nei confronti dei Cavs. KD ha infatti confezionato una stagione da sogno: si è inserito in un sistema collaudato nel quale coach Steve Kerr gli ha trovato la giusta dimensione senza fargli perdere tiri né toglierli alle stelle già in roster, ha chiuso la regular season a 25 punti, 8 rimbalzi e 5 assist ma è soprattutto esploso nei playoff chiudendo la finale oltre i 35 punti di media, andando sopra i 30 in tutte le cinque partite (l’ultimo a riuscirci era stato Shaq nel 2000) e guadagnandosi un meritato titolo di Mvp. Anzi, di “co-Mvp” a sentire alcuni commentatori.

Michael Jordan e LeBron non hanno mai giocato contro
E sì, perché – se non lo avete capito – oggi la Nba appartiene a LeBron James. Non tanto in senso tecnico: che sia in questo momento il giocatore più forte in assoluto è senz’altro vero (anche se una volta, dico una, potreste fischiargliela un’infrazione di passi!), ma alla Lega più globalizzata del mondo questo non basta. Serve un simbolo, un’icona mondiale, in parole povere un Michael Jordan. Ma per essere questo, LeBron deve vincere: MJ ha giocato sei finali, le ha vinte tutte e di tutte è stato nominato Mvp. Ha cambiato il gioco, si è evoluto – e in questo James ha seguito la stessa parabola, avvantaggiato però da un fisico ancora oggi fuori ordinanza – da atleta immaginifico a giocatore completo. I numeri e... gli occhi dicono che quello di quest’anno è stato il miglior LeBron di sempre: stagione regolare abbastanza quieta (26.4 punti, 8.6 rimbalzi, 8.6 assist e il 55% al tiro), un playoff dominante a 32.8 di media con un insolito 41% da tre e una finale in “tripla doppia”, mai accaduto. Basta per farne il “co-Mvp” in un Paese dove, se perdi, faticano a dartelo persino all’All Star Game? O per dire che il 4-1 a favore dei Warriors è ingiusto, o che comunque LeBron non esce ridimensionato da queste Finals?

Uhm, scuote la testa IlMaxFactor. Approfittando della debolezza dell’Est nell’ultimo decennio (prima c’era riuscito solo nel 2007, cedendo 4-0 ai San Antonio Spurs), James ha raggiunto sette Finali consecutive, otto in tutto, con un bilancio di 3-5. E in due delle tre vinte, entrambe a gara-7, è stato “salvato” da un canestro assurdo di Ray Allen nel 2013 mentre San Antonio già festeggiava il titolo e... dalla Nba stessa l’anno scorso, quando sul 3-1 per gli scintillanti Golden State Warriors è stato protetto oltremisura nella vicenda di Draymond Green, squalificato in una gara-5 che ha tolto agli avversari (sfiniti dalla cavalcata da 73-9 in stagione) tutte le loro certezze consegnando ai Cleveland Cavaliers il primo titolo della loro storia. Senza questi due episodi, è ragionevole pensare che James sarebbe 1-7 nelle Finals, un record da... Juventus. Avete già capito la mia risposta alle domande di qualche riga sopra.

Infine, al di là della “vendetta” sportiva per il titolo del 2016, credo che la grandezza di Golden State rischi di essere ingiustamente oscurata da tutto questo sbavare per il 23: prima volta nella storia con almeno 100 punti segnati in ogni gara di Finale, i migliori playoff di sempre con 16 vittorie e solo una sconfitta (i Lakers del 2001 chiusero con 15-1 perché il primo turno si giocava ancora tre su cinque) e una Finale dominata al di là delle chiacchiere: venti punti di scarto in gara-1, venti punti di scarto in gara-2, vittoria esterna con un break conclusivo di 11-0 in gara-3, la sconfitta di gara-4 ampiamente pronosticabile e una gara-5 complicata più che altro da un parziale subìto nel primo quarto a causa di due rimesse consecutive regalate da canestro preso: dopo la rimonta dal -8 (33-41) al +17 (69-52) i neo campioni Nba sono stati sempre in vantaggio, e i Cavs sono tornati al massimo a -4 prima di cedere alla voglia dei Warriors e alla stanchezza nel quarto periodo.


Stephen Curry festeggia uno dei suoi canestri incredibili in Finale
Così come rischia di passare ingiustamente sotto silenzio la risalita dagli Inferi di Steph Curry, uno certamente non baciato dagli Dèi per quanto riguarda il fisico, che ha dominato la Lega per due anni prima di arrendersi agli infortuni nel 2016 ed è tornato ai massimi livelli: i suoi playoff e soprattutto la sua finale (30 punti, 9 rimbalzi e altrettanti assist di media nelle quattro gare vinte) ci restituiscono un vero, immenso Mvp che però, non essendo due metri per due, non essendo stato prima scelta assoluta a 18 anni, non schiacciando tutto quello che gli capita tra le mani, evidentemente non merita – secondo gli immancabili Soloni – di essere celebrato come simbolo della nuova Nba. 

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