NBA Finals: ma quindi ha vinto LeBron, giusto?
Adesso
diranno tutti che era scontato, che se una squadra come i Golden
State Warriors prende Kevin Durant non può non vincere il titolo,
anche se dall’altro lato c’è il più forte del mondo e forse
della storia. Uhm. Sedetevi un attimo e parliamone, anzi fate parlare
IlMaxFactor che è meglio.
Partiamo
da lontano ma lo facciamo in modalità “supervelocità”: un
tempo, le grandi squadre che
avevano bisogno di un upgrade
tendevano a trovarlo al Draft. Ma come – direte voi – le scelte
più alte non sono appannaggio delle squadre con il record peggiore?
Esatto, però la strategia di scambiare giocatori già affermati o –
meglio ancora – diretti verso fine carriera con prime scelte
future consentiva comunque di rafforzarsi. E’ vero che all’epoca c’era più margine di manovra
perché non esisteva ancora il salary cap
(introdotto nel 1984 a quota 3,6 milioni di dollari, in
questa stagione era di 98 milioni ma in realtà puoi anche sforarlo,
basta che paghi la luxury tax),
ma resta il fatto che in questo modo i Lakers, già fortissimi con
Kareem Abdul-Jabbar, presero
Magic (scelta opzionata tre
anni prima cedendo Gail Goodrich a Utah) e
successivamente anche James Worthy (prima scelta assoluta avuta da
Cleveland in cambio di giocatori dimenticabili). E che dire dei
Celtics che, scelto Larry Bird, l’anno dopo scambiarono Bob McAdoo
con Detroit in cambio di due prime scelte, la seconda delle quali (la
n.1 del 1980, divenuta Joe Barry Carroll) finì poi a Golden State
per Robert Parish e la n.3 (Kevin McHale)?
Tre Hall of Famer in una sola panchina (insidehoops.com) |
Gli
esempi sarebbero tanti, ma qui mi interessa rilevare che qualcosa è
cambiato, e non da oggi
. Ricordate gli
Houston Rockets che, esaurita l’onda lunga dei due titoli di metà
anni Novanta, nel ’96 aggiunsero Charles Barkley a una squadra che
aveva già Drexler e Olajuwon perdendo in finale di Conference contro
Utah e nel ’98 firmarono anche il 36enne Scottie Pippen? O i Lakers
di inizio millennio che, per allungare il threepeat,
portarono Gary Payton e un già 41enne Karl Malone alla corte di
Kobe&Shaq salvo crollare in finale contro i Detroit Pistons? Fin
lì, però, l’idea dei big three
riguardava più che altro giocatori a fine carriera; cambiò tutto
quando nell’estate del 2007, dopo un’annata da 24-58, ad
affiancare il trentenne Paul Pierce ai
Boston Celtics arrivarono
Kevin Garnett (scambiato con ben sette tra giocatori e scelte!) e,
con la
rinuncia alla scelta n.5,
anche
Ray Allen. Il concetto è esattamente l’opposto di quello
precedente: sacrificare scelte anche molto alte per prendere campioni
già affermati. Quello che ha fatto Miami nel 2010, approfittando
della free agency di
LeBron per prelevarlo da Cleveland con un sign and trade
in cambio di scelte future in abbondanza, e quindi
firmando il free agent Chris Bosh. Gli Heat, che avevano già Dwyane
Wade formato Mvp, vinsero due titoli nel 2012 e nel 2013.
Garnett, Allen e Pierce con il titolo del 2008 |
I "big Three" di Miami hanno vinto nel 2012 e 2013 |
L’arrivo
di Kevin Durant a Golden State, a ben vedere, è figlio di quella
mossa di LeBron – anche se The King ha voluto tracciare dei
distinguo al riguardo – e si è rivelato, dal punto di vista
tecnico e sportivo, il principale motivo della “vendetta” dei
Warriors nei confronti dei Cavs. KD ha infatti confezionato una
stagione da sogno: si è inserito in un sistema collaudato nel quale
coach Steve Kerr gli ha trovato la giusta dimensione senza fargli
perdere tiri né toglierli alle stelle già in roster, ha chiuso la
regular season a
25 punti, 8 rimbalzi e 5 assist ma è soprattutto esploso nei playoff
chiudendo la finale oltre i 35 punti di media, andando sopra i 30 in
tutte le cinque partite (l’ultimo a riuscirci era stato Shaq nel
2000) e guadagnandosi un meritato titolo di Mvp. Anzi, di “co-Mvp”
a sentire alcuni commentatori.
Michael Jordan e LeBron non hanno mai giocato contro |
E
sì, perché – se non lo
avete capito – oggi la Nba appartiene a LeBron James. Non tanto in
senso tecnico: che sia in questo momento il giocatore più forte in
assoluto è senz’altro vero (anche
se una volta, dico una, potreste fischiargliela un’infrazione di
passi!), ma alla Lega più
globalizzata del mondo questo non basta. Serve un simbolo, un’icona
mondiale, in parole povere un Michael Jordan. Ma
per essere questo, LeBron deve vincere: MJ ha giocato sei finali, le
ha vinte tutte e di tutte è stato nominato Mvp. Ha cambiato il
gioco, si è evoluto – e in questo James ha seguito la stessa
parabola, avvantaggiato però da un fisico ancora oggi fuori
ordinanza – da atleta immaginifico a giocatore completo. I numeri
e... gli occhi dicono che quello di quest’anno è stato il miglior
LeBron di sempre: stagione regolare abbastanza quieta (26.4 punti,
8.6 rimbalzi, 8.6 assist e il 55% al tiro), un playoff dominante a
32.8 di media con un insolito 41% da tre e una finale in “tripla
doppia”, mai accaduto. Basta per farne il “co-Mvp” in un Paese
dove, se perdi, faticano a dartelo persino all’All Star Game? O per
dire che il 4-1 a favore dei Warriors è ingiusto, o che comunque
LeBron non esce ridimensionato da queste Finals?
Uhm,
scuote la testa IlMaxFactor. Approfittando della debolezza dell’Est
nell’ultimo decennio (prima
c’era riuscito solo nel 2007, cedendo 4-0 ai San Antonio Spurs),
James ha raggiunto sette Finali consecutive, otto in tutto, con un
bilancio di 3-5. E in due delle tre vinte, entrambe a gara-7, è
stato “salvato” da un canestro assurdo di Ray Allen nel 2013
mentre San Antonio già festeggiava il titolo e... dalla Nba stessa
l’anno scorso, quando sul 3-1 per gli scintillanti Golden State
Warriors è stato protetto oltremisura nella vicenda di Draymond
Green, squalificato in una gara-5 che ha tolto agli avversari
(sfiniti dalla cavalcata da 73-9 in stagione) tutte le loro certezze
consegnando ai Cleveland Cavaliers il primo titolo della loro storia.
Senza questi due episodi, è ragionevole pensare che James sarebbe
1-7 nelle Finals, un record da... Juventus. Avete già capito la mia
risposta alle domande di qualche riga sopra.
Infine,
al di là della “vendetta” sportiva per il titolo del 2016, credo
che la grandezza di Golden State rischi di essere ingiustamente
oscurata da tutto questo sbavare per il 23: prima volta nella storia
con almeno 100 punti segnati in ogni gara di Finale, i migliori
playoff di sempre con 16 vittorie e solo una sconfitta (i
Lakers del 2001 chiusero con 15-1 perché il primo turno si giocava
ancora tre su cinque) e una Finale dominata al di là delle
chiacchiere: venti punti di scarto in gara-1, venti punti di scarto
in gara-2, vittoria esterna con un break conclusivo di 11-0 in
gara-3, la sconfitta di gara-4 ampiamente pronosticabile e una gara-5
complicata più che altro da un parziale subìto nel primo quarto a
causa di due rimesse consecutive regalate da canestro preso: dopo la
rimonta dal -8 (33-41) al +17 (69-52) i neo campioni Nba sono stati
sempre in vantaggio, e i Cavs sono tornati al massimo a -4 prima di
cedere alla voglia dei Warriors e alla stanchezza nel quarto periodo.
Stephen Curry festeggia uno dei suoi canestri incredibili in Finale |
Così
come rischia di passare ingiustamente sotto silenzio la risalita
dagli Inferi di Steph Curry, uno certamente non baciato dagli Dèi
per quanto riguarda il fisico, che ha dominato la Lega per due anni
prima di arrendersi agli infortuni nel 2016 ed
è tornato ai massimi livelli:
i suoi playoff e soprattutto
la sua finale (30 punti, 9 rimbalzi e altrettanti assist di media
nelle quattro gare vinte) ci restituiscono un vero, immenso Mvp che
però, non essendo due metri per due, non essendo stato prima scelta
assoluta a 18 anni, non schiacciando tutto quello che gli capita tra
le mani, evidentemente non merita – secondo gli immancabili Soloni
– di essere celebrato come simbolo della nuova Nba.
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