Poz, Kidd, Rose e Collins: storie di point guard (anzi, di playmaker)
E’ una di quelle parole inglesi che abbiamo trascinato a peso nella lingua italiana senza sapere quale fosse il loro vero significato. Tanto che da loro – intendo in America – “playmaker” è l’atleta in grado di fare le giocate decisive mentre il ruolo che noi definiamo così è quello di “point guard” (guardia, ovvero esterno, che gioca in punta, quindi fronte al canestro avversario). Tuttavia, non è più tanto raro che la “point guard” sia il “playmaker” della squadra, ovvero che decida le partite; il suo ruolo di spalla, di comprimario così com’era disegnato dal basket tradizionale, nel quale – pur con eccezioni – il play si limita a passare la metà campo palla in mano e innescare con il passaggio i compagni, si è enormemente evoluto e oggi sono davvero tanti i “numeri 1” (altra definizione del ruolo sul parquet) migliori realizzatori delle loro squadre o comunque più votati al tiro o alla penetrazione che non alla distribuzione del gioco. E anche se questa regola di fatto no